Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 25/03/2015, a pag. 3, con il titolo "Sisi il 'riformatore improbabile' vuole salvare l'Egitto e l'islam" l'analisi tradotta dal Wall Street Journal.
Abdel Fattah al Sisi
L'Università di Al Azhar
Roma. Bret Stephens, columnist del Wall Street Journal, ha intervistato il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e l’ha definito “l’improbabile riformatore dell’islam”. In gennaio Sisi ha tenuto un discorso storico davanti alle autorità religiose dell’Università islamica di al Azhar, al Cairo, in cui ha chiesto con forza una “rivoluzione” dentro l’islam. Sisi è un islamico devoto, e questa è una delle ragioni, scrive Stephens, per cui nel 2012 l’allora presidente egiziano Mohammed Morsi, esponente della Fratellanza musulmana, scelse questo generale poco conosciuto come ministro della Difesa: “Un musulmano devoto deve essere per forza un islamista politico, deve aver pensato Morsi. Ma il generale Sisi avrebbe presto dato al mondo una lezione sulla differenza tra devozione religiosa e radicalismo”.
La lezione l’ha imparata per primo Morsi che nell’estate del 2013 è stato rovesciato da una sollevazione popolare – da alcuni definita golpe, mai ufficialmente dagli Stati Uniti – che ha visto Sisi emergere come dominatore del paese, e iniziare una campagna di repressione proprio contro la Fratellanza. “I membri della Fratellanza musulmana sono cattivi musulmani?”, chiede Stephens. “E’ l’ideologia, sono le idee”, risponde Sisi. “La religione islamica garantisce alle persone la libertà assoluta di credere o non credere”, dice Sisi a Stephens. “L’islam non dice di uccidere gli altri perché non credono nell’islam, non dice che i musulmani hanno il diritto di imporre il loro credo a tutto il mondo. L’islam non dice che solo i musulmani andranno in paradiso e gli altri all’inferno”.
“Non siamo dèi in terra”, aggiunge Sisi, “non abbiamo il diritto di agire in nome di Allah”. “Quando Sisi prese il potere nel luglio del 2013”, scrive Stephens, “non era chiaro che sarebbe emerso forse come il più importante sostenitore della moderazione religiosa e di una riforma dentro l’islam”. Allora era considerato soprattutto un esponente dell’esercito, erede di Hosni Mubarak. Ma Sisi ha vissuto per lunghi periodi in America, ed è all’America che promette il suo sostegno, anche se l’Amministrazione Obama, dopo la sua ascesa alla presidenza, ha bloccato la vendita all’Egitto di molte armi strategiche, come gli aerei da guerra F-16.
“Non si può ridurre le nostre relazioni a una questione di sistemi d’armamento”, dice il presidente a Stephens. “Desideriamo una relazione strategica con gli Stati Uniti più di ogni altra cosa. E non vi volteremo mai le spalle, anche se voi le voltate a noi”. Sisi cita spesso durante l’intervista la necessità di sicurezza interna dell’America dopo l’11 settembre, e lo fa per “ricordare ai suoi critici del compromesso che ogni paese deve adottare tra sicurezza e libertà civili”. Quando Stephens gli fa notare la delusione dei liberali egiziani, che criticano il ritorno di alcune leggi restrittive dell’èra Mubarak, come la stretta sulle proteste di piazza e i provvedimenti liberticidi quali l’arresto e il processo contro i giornalisti di al Jazeera, Sisi si mostra evasivo, dice che desidera “venire incontro alle aspettative” dei liberali, ma la situazione dell’Egitto rischia di andare fuori controllo.
“Negli ultimi quattro anni il nostro debito interno è raddoppiato fino a 300 miliardi di dollari. Non separi questa risposta dalla domanda sulla delusione dei liberali. Questo paese deve sopravvivere, non abbiamo il lusso di combattere, dividerci e usare il nostro tempo per discutere questioni come questa. Un paese ha bisogno di sicurezza per garantire la sua mera esistenza. Se il mondo ci aiuta, lascerò che la gente manifesti in strada giorno e notte”. Per Sisi la situazione in America è diversa, e non è possibile imporre gli standard americani a un paese come l’Egitto: la democrazia e la libertà, dice il presidente, “devono essere rispettate, ma hanno bisogno di un’atmosfera in cui questi valori possano essere alimentati”.
La democrazia può sopravvivere solo dove ci sono prosperità e stabilità, e queste per il presidente egiziano passano dalla lotta contro il terrorismo. “Non si può dubitare della serietà dell’opposizione di Sisi all’estremismo islamico”, scrive Stephens. Sisi nelle prossime settimane presiederà un summit della Lega araba per promuovere la creazione di una task force antiterrorismo per “preservare quello che rimane” della stabilità nel mondo arabo. Critica anche la tendenza dell’occidente a intervenire negli scenari di crisi e a non tenere conto delle conseguenze (“Guarda, la Nato aveva una missione in Libia, e non l’ha compiuta”), ma non è un oppositore del coinvolgimento americano nel medio oriente, e anzi sostiene “con entusiasmo” la Pax americana: “Gli Stati Uniti hanno la forza (militare)”, dice, “ed è per questo che hanno una responsabilità nei confronti di tutto il mondo… Il medio oriente sta attraversando il suo periodo più difficile e questo comporterà un maggiore coinvolgimento, non uno minore”. Nella sua “missione personale per salvare l’Egitto”, Sisi dice che il suo compito più importante, la riforma dell’islam, richiederà tempo.
“La cosa più difficile da fare è cambiare una retorica religiosa e portare un cambiamento nel modo in cui le persone sono abituate a professare la loro religione. Non immaginate che vedremo i risultati nei prossimi mesi o anni. Le incomprensioni radicali sull’islam sono state instillate 100 anni fa, e soltanto ora ne stiamo vedendo i risultati”.
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