Riprendiamo da ALTO ADIGE del 21/03/2015, a pag.1, con il titolo "Serve un po' di chiarezza sulla vittora di Netanyahu" l'articolo di Federico Steinhaus che interviene dopo la pubblicazione sul quotidiano della catena Finegil dell'Ing.Carlo de Benedetti di servizi che vanno definiti per quello che sono: disinformanti. Bene ha fatto Federico Steinhaus, nostro collaboratore, a rettificarli con l'articolo che segue.
Per scrivere a Alto Adige, diretto da Alberto Faustini:
bolzano@altoadige.it
Federico Steinahus
Giovedi scorso l’Alto Adige ha pubblicato due interessanti analisi dei risultati elettorali in Israele, ma entrambe non esauriscono il tema e rimangono parzialmente ancorate ad una visione stereotipata della complessa realtà del Vicino e Medio Oriente, oltre che di quella israeliana. Purtroppo capita talvolta che luoghi comuni ed abitudini mentali influenzino anche studiosi e giornalisti. Non pretendo di essere il custode della Verità con la V maiuscola, ma vorrei semplicemente proporre un punto di vista che, senza essere alternativo al loro, lo completa e lo raffina. Innanzi tutto, la domanda sul perché abbia vinto Netanyahu contro ogni pronostico non trova una risposta semplificatrice nel presunto posizionamento reazionario degli israeliani, quanto piuttosto in un articolato ragionamento degli elettori. Il partito laburista di Herzog/Livni non aveva presentato un progetto politico convincente, e Livni di per sè suscitava negli elettori una certa diffidenza a causa del suo transitare attraverso quattro partiti; nessuno dei due aveva il carisma del leader, ed oltre a ciò essi hanno commesso l’errore di demonizzare il loro principale avversario, Netanyahu, basando la loro campagna sulla sua denigrazione più che su una visione strategica per il paese. La prova di ciò consiste nel fatto che gli elettori hanno punito severamente le due ali estreme dello schieramento politico, con una scelta che di fatto, nel suo complesso, risulta di centro. Un secondo motivo, quello politicamente decisivo, del successo di Netanyahu è stata la sua ferma e coraggiosa presa di posizione nei confronti della politica estera di Obama: il presidente americano, dopo aver squassato brutalmente tutti i rapporti che gli Stati Uniti avevano faticosamente costruito con gli stati arabi moderati, gettando a mare alleanze tradizionali, si accinge ora a sottoscrivere un accordo con il regime teocratico di Teheran che allarma non solo Israele. Lo dimostra il fatto che questi stati arabi, dall’Egitto all’Arabia Saudita, dalla Giordania agli Emirati, non si sentono più protetti di fronte alle prepotenze iraniane ed alla minaccia di uno stato nucleare che finanzia ed arma i terroristi. E non è a caso che questi stati arabi hanno fatto capire che la vittoria di Netanyahu costituisce anche per loro un motivo di rassicurazione. Il problema palestinese non è mai stato cruciale per il mondo arabo ed è servito solo da pretesto per far guerra ad Israele, ma nel momento del pericolo questi stessi stati che sono stati o sono ancora formalmente nemici d’Israele si schierano con chi – Netanyahu – unico al mondo ha saputo opporsi con vigore ai progetti americani. Cosa succederà ora è difficile da prevedere. Obama prende tempo per congratularsi con Netanyahu per la vittoria: nel 2013 si era congratulato nello stesso giorno delle elezioni col presidente iraniano e dopo un giorno con quello cinese, nel 2014 si era congratulato dopo un giorno con il turco Erdogan e dopo due giorni con l’egiziano al Sisi. Ora invece fa sapere che potrebbe addirittura sostenere una richiesta che Israele rientri nei confini del 1967, che neppure l’ONU riconosce come tali. Obama si rende conto che gli elettori israeliani non hanno votato a favore di Netanyahu, ma hanno in realtà sottoscritto un plebiscito contro di lui. Voglio aggiungere una doverosa spiegazione su un argomento che negli articoli pubblicati giovedi è stato travisato. Dal contesto di quei due articoli pare che Israele voglia essere uno stato teocratico, il che non è assolutamente vero. La religione ebraica è aperta, non conosce gerarchie rigide né dogmi. In Israele coesitono la religione vissuta con forte convinzione – Gerusalemme è, con un paio di altre località, il luogo dove ciò è più evidente – e la laicità più spinta, che si vive con non minore evidenza nelle altre due grandi città, Tel Aviv e Haifa. Tuttavia, la religione ebraica è anche rigorosa e pervade ogni momento della vita umana, per chi la voglia osservare. Israele, con tutto ciò, è uno stato fondamentalmente laico salvo per il rispetto di alcune regole religiose (ad esempio l’interruzione del trasporto pubblico nei giorni di festa) e profondamente democratico, nel quale le festività religiose delle tre principali componenti sono equamente osservate: di venerdì riposano i musulmani, di sabato gli ebrei, di domenica i cristiani. E’, lo dico con forza, l’unica democrazia multireligiosa di tutta la regione e dell’intero universo islamico. Nell’attuale parlamento, i due partiti religiosi hanno ottenuto insieme solo 13 seggi su 120, e ciò smentisce ogni accusa di spinte teocratiche. Cosa vorrebbe dunque significare il riconoscimento che Israele è uno stato ebraico, che Israele vuole inserire in un eventuale accordo di pace che accetti la creazione di uno stato palestinese? Molto semplicemente, che questo è l’unico posto al mondo in cui gli ebrei che si sentano in pericolo altrove (Argentina, Unione Sovietica, Francia, Iran…la storia recente ci fornisce molti esempi) possono trovare un rifugio. Durante il nazismo nessuno, neppure in Europa, neppure gli Stati Uniti, ha offerto loro una incondizionata protezione. Si può dunque biasimare questa richiesta? Gli integralisti/terroristi islamici di Hamas e Hezbollah, a sud ed a nord, non si farebbero fermare da una tale dichiarazione, è ovvio, e sicuramente essa non costituirebbe un ostacolo per un Iran che proclama di voler distruggere questa „entità sionista“ di cui non ama neppure pronunciare il nome, e tuttavia essa rafforzerebbe nel contesto internazionale la legittimazione di Israele. Questo mi premeva precisare, allo scopo di evitare malintesi e di allargare lo sguardo anche oltre i risultati elettorali israeliani.