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La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.03.2015 La lotta spietata dell'integralismo islamico contro la democrazia
Analisi di Maurizio Molinari, Carlo Panella; Stefano Montefiori intervista lo scrittore algerino Kamel Daoud

Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Carlo Panella - Stefano Montefiori
Titolo: «L'emiro senza volto che tiene unito il network del terrore islamista - Perché i jihadisti non tollerano la democrazia araba in Tunisia (e in Marocco) - La debolezza delle élite arabe»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, a pag. 7, con il titolo "L'emiro senza volto che tiene unito il network del terrore islamista", l'analisi di Maurizio Molinari; dal FOGLIO, a pag. III, con il titolo "Perché i jihadisti non tollerano la democrazia araba in Tunisia (e in Marocco)", l'analisi di Carlo Panella; dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, con il titolo "La debolezza delle élite arabe", l'intervista di Stefano Montefiori a Kamel Daoud, scrittore algrerino minacciato di morte dai terroristi islamici.

Ecco gli articoli:


La differenza tra musulmani radicali e moderati: la distanza che pongono tra se stessi e le bombe...

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "L'emiro senza volto che tiene unito il network del terrore islamista"


Maurizio Molinari

L’attacco al museo Bardo di Tunisi nasce dalla galassia jihadista maghrebina che ha molte diramazioni e annovera un super-terrorista senza volto meglio noto come «l’Emiro dei kamikaze», che si troverebbe in Libia. La pista che porta a Tariq Al Harzi, questo il nome dell’«Emiro», attraversa il network islamista che dal Nordafrica raggiunge i territori del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi in Siria e Iraq, articolandosi in cellule e gruppi con fedeltà differenti, spesso in competizione fra loro nella guida della «Jihad Globale».

Soldi e reclutamenti
Nato nel 1982 in Tunisia, Al Harzi cresce nelle cellule salafite che operano nel Sahara, muovendosi senza difficoltà fra più Stati, e nel 2013 appare sui radar dell’anti-terrorismo come regista dell’arrivo in Siria e Iraq di centinaia di volontari tunisini destinati a Isis. Si tratta di un fenomeno nuovo, che spinge europei e americani a un monitoraggio serrato. È così che il ministero del Tesoro Usa arriva alla decisione di includerlo nella lista dei super-terroristi - colpendolo con sanzioni ad personam nel 2014 - perché è coinvolto nell’arrivo di circa 2 miliardi di dollari in «donazioni private» dal Qatar all’Isis nel corso del 2013. Collettore di ingenti fondi e al tempo stesso regista di volontari jihadisti, Al Harzi crea in tempi rapidi un network con più ramificazioni che portano non solo al Califfo ma anche ad «Al Qaeda in Maghreb», ancora fedele ad Ayman al Zawahiri successore di Osama bin Laden, come ai gruppi Al Shaabab in Somalia e a singoli finanziatori dei salafiti, di base in più Paesi del Golfo.

Non è chiaro se Al Harzi lavori per uno, più committenti o solo per se stesso, arricchendosi grazie al traffico che alimenta la Jihad in due Continenti. Di sicuro viene considerato affidabile, da Al-Nusra in Siria come da Isis in Iraq, perché i militanti tunisini che recapita a destinazione dimostrano di possedere una motivazione molto alta, sono ideologicamente affidabili e sono pronti a morire.

«Emiro dei kamikaze»
La definizione di «Emiro dei kamikaze» nasce proprio dalla constatazione che gli islamici che fa arrivare dalla Tunisia quasi sempre si fanno saltare in aria in Siria o Iraq per colpire gli «infedeli». Di Al Harzi non esistono foto recenti ma il nome è legato ai tremila volontari tunisini nell’Isis, un record nella classifica degli arrivi dai Paesi musulmani. Il sospetto dell’intelligence occidentale è che ora l’«Emiro» si trovi in Libia, dove coordina l’arrivo di militanti - ancora una volta in gran parte tunisini - per rafforzare le cellule islamiche che operano in Cirenaica e Tripolitania, alcune delle quali hanno giurato fedeltà al Califfo. Al Harzi si sarebbe spostato, dall’area Siria-Iraq alla Cirenaica, seguendo il baricentro dei traffici illeciti, attirato ora dai facili proventi dei pozzi del petrolio libico. Proprio dalla nuova zona di operazioni in Tripolitania, l’«Emiro» sarebbe entrato in contatto con alcune brigate tunisine.

E sarebbe stato lui a spingere Wamnes Fakieh, capo di «Ansar al Sharia» in Tunisia, a incidere l’audio in cui la cellula di Isis preannunciava attacchi nel Paese dei gelsomini per rappresaglia dopo l’uccisione in Libia di Ahmed al-Rouissi, caduto in scontri con le milizie islamiche fedeli a Tripoli. La morte di al-Rouissi, secondo questa interpretazioni, sarebbe stato una sorte di «grilletto» spingendo Al Harzi a cercare un’immediata rappresaglia. Sempre l’«Emiro dei Kamikaze» avrebbe arruolato nei ranghi del Califfo Seifallah Ben Hassine, uno dei capi di «Ansar al-Sharia» in Tunisia. Nulla da sorprendersi se il suo passaporto tunisino, numero Z-050399, è fra i più ricercati dell’intero Pianeta. Ciò che colpisce è come, seguendo la pista dei volontari tunisini smistati dall’«Emiro», si arrivi a descrivere la mappa della galassia jihadista perché giungono a destinazione a «Jund Al Khalifa» in Algeria, «Ansar al-Sharia» in Libia, nei gruppi salafiti marocchini come in quelli siriani e iracheni che si battono contro il regime Assad e il governo di Baghdad.

I timori del Pentagono
Il timore del «Comando Africa» del Pentagono è che questo arcipelago di sigle e gruppi, spesso in competizione sulla gestione delle risorse, stia creando dei legami strutturali con Boko Haram, i jihadisti nigeriani che operano a Sud del Sahara, puntando a trasformare proprio il grande deserto nella zona franca della Jihad, una sorta di grande autostrada lungo la quale gestire più traffici e più guerriglie. Incluse quelle dei «Morabitoun», in Mali e Niger, fedeli all’imprendibile Mokhtar Belmokhtar, regista della guerriglia anti-francese e conteso fra al Zawahiri e il Califfo.

IL FOGLIO - Carlo Panella: "Perché i jihadisti non tollerano la democrazia araba in Tunisia (e in Marocco)"


Carlo Panella

Roma. Marocco e Tunisia sono gli unici due paesi arabi in cui la lotta, durissima, contro il terrorismo jihadista è condotta da governi e parlamenti democratici. Il governo marocchino si è consolidato in una democrazia nascente, ma robusta, mentre il governo tunisino fa i primi passi sulla strada della democrazia rappresentativa, dopo che la forte presenza di forze laiche ha neutralizzato la spinta eversiva islamista dei Fratelli musulmani di Ennahda. Come si sa, la Tunisia è l’unico paese in cui una primavera araba – che là è nata – non ha avuto sbocchi drammatici (Siria, Libia, Yemen) o autoritari (Egitto), ma si è incanalata in una dinamica democratica.

Il Marocco, invece, e non a caso, è l’unico paese arabo immune alle “primavere”, un record assoluto, che ha una ragione interessante: la rappresentanza politica e sociale ha funzionato e ha incanalato le spinte ribelli e riformatrici nei canali di istituzioni operative. Indagare oggi su questa positiva anomalia dei due paesi arabi è non solo utile, ma indispensabile. Innanzitutto per appoggiare i due unici sistemi-paese arabi in grado di contrastare il terrorismo jihadista con la determinazione e l’efficacia strategica che solo le democrazie garantiscono. Ma anche per uscire dalle sterili secche del dibattito su “islam e democrazia”, evitando la Scilla dei negazionisti alla Magdi Allam e l’ancor più pericolosa Cariddi del politically correct che ne attesta la compatibilità a prescindere, per volontarismo astratto.

Sul piano politico, i due paesi hanno oggi un assetto democratico perché dagli anni Cinquanta sono stati gli unici che – invisi alla sinistra comunista e terzomondista europea, che li considerava “lacchè dell’imperialismo” – hanno combattuto il contagio nasseriano e panarabista. Rifiuto militante, sì che Habib Bourguiba e il re del Marocco Muhammed V, d’intesa, tentarono in tutti i modi di contrastare l’ascesa sanguinaria del nasseriano Fnl algerino, favorendo l’opposizione anticoloniale moderata del Movimento nazionale algerino di Ahmed Messali e di Ferat Abbas, purtroppo eliminati manu militari dal Fnl con non meno di 12 mila morti. Il rifiuto del nasserismo era a tutto campo, a partire dallo strategico riconoscimento arabo dell’esistenza dello stato di Israele che con straordinario coraggio Bourguiba propose il 30 marzo 1965, confliggendo così con l’essenza del nasserismo: il jihad per l’eliminazione di Israele (il Marocco riconosce Israele dal 1994).

Ma sia Bourguiba sia i re (sultani) marocchini hanno consolidato le fondamenta della democrazia su un più profondo terreno: sono andati controcorrente rispetto alla riforma shariatica tradizionalista delle Costituzioni arabe iniziata negli anni 70 (con abbandono dei codici ereditati dai protettorati europei) e hanno riformato in senso paritario i Codici di Famiglia. Precursore fu Bourguiba che nel 1956 affidò al grande e popolare giureconsulto musulmano Tahir al Haddad l’incarico di riformare il diritto di famiglia, abolendo le prescrizioni shariatiche tradizionali, ma sempre nel rispetto, modernizzante, del Fiqh, il diritto islamico.

Nel 2004 il re del Marocco compì la stessa riforma, interna al contesto islamico, imponendo – quale discendente diretto del Profeta – a un Parlamento riottoso, la Moudawana, il nuovo diritto di famiglia. Eliminato così dal nucleo famigliare (in principio, la prassi si consolida con lentezza) il criterio di sopraffazione violenta (jihadista) del maschio sulla donna, parificati i diritti di uomo e donna, abolita la poligamia e il ripudio, in Tunisia e Marocco si sono consolidate società plasmate sul loro nucleo basilare – la famiglia – in grado di costruire rapporti di democrazia sostanziale, che non si esaurisce nel principio del voto universale e del check and balance istituzionale. Sommate a una alfabetizzazione di massa (carente negli altri paesi arabi, Egitto in testa), quelle riforme hanno plasmato gli unici paesi arabi con dinamiche riformatrici. Questa è la base reale delle due sole democrazie arabe che combattono il terrorismo jihadista.

CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori: "La debolezza delle élite arabe"

Le parole di Daoud sono di buon auspicio, ma rientrano nella categoria del wishful thinking, ovvero di quella riflessione conciliante che non fa i conti con la realtà nei suoi aspetti più duri. Ci auguriamo che lo scrittore algerino abbia ragione, ma l'estremismo islamico è molto più radicato nell'universo musulmano di quanto le dichiarazioni di Daoud lascino supporre.

Ecco il pezzo:


Stefano Montefiori, Kamel Daoud

Kamel Daoud, 44 anni, è un giornalista e scrittore algerino che è arrivato in finale all’ultimo prix Goncourt con lo straordinario Meursault, contre-enquête (Actus-Sud, in Italia sarà pubblicato a inizio 2016 da Bompiani), omaggio allo Straniero di Camus, nel quale il narratore è il fratello dell’«Arabo» ucciso da Meursault.

Possiamo applicare la nozione di «assurdo» di Camus a quello che stiamo vivendo in questi giorni? «Mi pare di sì, la grande differenza dipende da come ci poniamo di fronte all’assurdo. I jihadisti pensano di detenere la verità sul mondo, credono di possedere il senso delle cose, e finiscono per uccidere degli innocenti, cadono nell’assurdo. Noi che accettiamo l’assurdità del mondo, che la verità non la possediamo ma la cerchiamo, partiamo dall’assurdo e finiamo per costruire del senso, per dare un senso alle cose. La vita è inspiegabile, ma gli assassini trovano sempre dei motivi per le morti che hanno provocato».

In uno dei suoi ultimi editoriali lei attacca l’abitudine dei ministri algerini di giustificarsi davanti agli islamisti. Stiamo perdendo la battaglia culturale? «È così, le élite arabe sono troppo deboli, e in parte lo sono anche quelle occidentali. Nel mondo arabo le autorità non riescono a mettersi in una posizione di forza, sono succubi degli integralisti. I ministri non danno spiegazioni al cittadino ma al credente, si sentono colpevoli di fronte agli islamisti ma non di fronte alla repubblica, si giustificano di fronte alla sharia e non a una costituzione».

Perché anche le élite occidentali sono deboli? «Perché oscillano tra il populismo e l’accondiscendenza. Nel primo caso, considerano ancora i musulmani come un elemento esogeno, come un corpo estraneo, quando invece è endogeno. I musulmani sono francesi o italiani come gli altri. Nel secondo caso, le élite occidentali talvolta non si oppongono con sufficiente fermezza alla prepotenza. Ho apprezzato invece la recente legge austriaca che proibisce il finanziamento dei luoghi di culto dai fondi stranieri, e obbliga tutti gli imam a parlare il tedesco».

Ieri su «Libération» lei ha scritto che è Tunisi oggi il vero cuore del mondo arabo. «Sì perché è lì che si gioca la battaglia tra democrazia e islamismo, e la Tunisia è l’unico Paese che sta riuscendo a costruire un equilibrio tra forze progressiste e tradizione islamica. È Tunisi il cuore. Non Algeri, capitale della decolonizzazione, né il Cairo, centro del panarabismo».

All’età di nove anni lei ha deciso di imparare, da solo, il francese, la lingua dell’ex colonizzatore. Perché? «E perché no? Non era tanto una questione di lingua ma di desiderio, voglia di aprirmi al mondo e di conoscere. Volevo poter leggere i libri che ancora facevano parte della nostra realtà. Ed erano scritti in francese» .

Lei, Kamel Daoud, è vittima di una fatwa pronunciata da un imam salafista che le rimprovera le posizioni contrarie all’integralismo islamico. Condannato a morte, continua a vivere in Algeria. «Io sono algerino, le persone che amo e che mi amano vivono in Algeria, non voglio andarmene. Tutta la mia vita è là. Mi possono uccidere, è vero, ma potrebbero uccidermi ovunque, a Tolosa o a Genova».

I fatti di questi mesi le ricordano gli attentati della guerra civile in Algeria? «Certamente, lo stesso orrore che adesso vive il mondo intero noi lo abbiamo vissuto negli anni Novanta, quando i civili innocenti furono uccisi a migliaia. Dobbiamo renderci conto che siamo in guerra, tutti. Da una parte gli jihadisti, dall’altra l’umanità» .

Migliaia di manifestanti in piazza a Tunisi contro il terrorismo. Il mondo arabo si sta finalmente mobilitando? «Ricordiamoci che scendere in piazza a Parigi è meno rischioso che ad Algeri. Comunque sì, mi sembra che ci stiamo svegliando. È aumentato l’orrore, ma anche il rifiuto. Tutti hanno capito ormai che è una questione di vita o di morte».

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