Riprendiamo da SHALOM di marzo 2015, a pag. 19, con il titolo "Buon compleanno Hebrew University: 90 anni portati bene", l'analisi di David Meghnagi.
David Meghnagi
Il campus della Hebrew University
Il 1° Aprile 1925, a ridosso di Pesach, un giorno di primavera, nel punto più alto di Gerusalemme, cui è ispirato il celebre canto di ‘Al Pisgal HarHa-Zofim, una piccola folla di militanti del movimento sionista, esponenti delle istituzioni ebraiche, rabbini e studiosi, festeggia la nascita dell’Università ebraica di Gerusalemme. Fra i presenti ci sono: Lord Balfour che nel suo intervento citerà Freud ed Einstein, il professor Allenby e Sir Herbert Samuel, il Rabbino Capo Hacohen Abraham Isaac Kook, uno degli ultimi kabbalisti del Novecento, e Haim Nachman Bialik, il poeta della rinascita nazionale e dell’incontro fra la tradizione e la modernità. L’avere scelto l’imminenza della festività di Pesach per celebrare la nascita dell’Università ha un valore aggiunto, di carattere simbolico, che collega il presente con le speranze incompiute del passato. Pesach è la festa della liberazione dalla schiavitù materiale e spirituale.
Il simbolo della Hebrew University
La parola “università”, per quei primi edifici, poteva sembrare altisonante ed eccessiva. Non era però la realtà del presente a contare, quanto piuttosto la visione che la animava. Sette anni prima, c’era solo una pietra a raccontare di un sogno, avanzato nel 1884 in occasione della conferenza di Kattowitz dei Chovevei Sion, che per i più scettici appariva allora un’allucinazione del desiderio. Il frutto di una psicologia della disperazione, come quando sotto l’effetto della sete si vede acqua, anche dove non c’è. E non invece, come invece è, la manifestazione di un sogno secolare. Nei sette anni che avevano preceduto la nascita dell’Università, il movimento sionista aveva gettato le basi del governo ombra dell’Yshuv, creando l’Histadruth (la Confederazione del lavoro) e articolando il lavoro dell’Agenzia ebraica in due branche distinte: il Keren Kayemeth per l’acquisto e la bonifica delle terre e il Keren Hayesod per le altre attività.
Per completare il quadro, mancava l’università e il fatto di poter contare sulla presenza di Sigmund Freud e di Albert Einstein, che ne fu uno dei massimi sostenitori (e in seguito donò tutte le sue carte all’Università), Nachman Bialik, Martin Buber e Asher Ginsberg (Achad Ha’am), per non parlare degli altri nomi, non era un fatto di tutti i giorni. L’Università Ebraica di Gerusalemme è oggi considerata uno dei migliori atenei del mondo. È la sede della più grande biblioteca di studi ebraici e vanta circa 23,000 studenti iscritti. L’università dispone oggi di quattro campus che si trovano in aree diverse: Monte Scopus, Givat Ram, Ein Kerem, Rehovot. Quando il governo della Giordania, in violazione degli accordi di armistizio del 1949, negò l’accesso israeliano al campus del Monte Scopus (Har Ha-Zofim), l’Università fu costretta a chiudere e a costruire un nuovo campus a Givat Ram nella parte occidentale della città, che fu completata nel 1953.
Nel frattempo, l’Università dovette affittare una parte del fabbricato “Terra Sancta” nel quartiere di Rehavia, dei frati francescani Custodi dei Luoghi Santi. Agli inizi del 1967, il numero di studenti era intorno ai 12.500, tra la sede di Gerusalemme e quella di Rehovot, in cui era incardinata la Facoltà di agricoltura. Novant’anni dopo, attraversando i lunghi corridoi che collegano i vari dipartimenti e centri di ricerca di quella che è diventata una delle università più importanti del mondo, mi sono chiesto guardando le foto color bianco, affisse sulle pareti dell’Università come petali di un amore che resiste all’erosione del tempo, quali pensieri avessero attraversato i padri fondatori dell’università in quel fatidico momento. Per alcuni mi sono documentato, collegando le immagini delle foto d’epoca, con l’opera e gli scritti dei partecipanti. Malato e impossibilitato a partecipare alla cerimonia d’inaugurazione, Freud inviò un breve messaggio in cui la nazione ebraica è chiamata con affetto la “nostra piccola nazione”.
Senza saperlo, il fondatore della psicoanalisi si era collegato a uno dei brani più toccanti dell’inizio della liturgia di Rosh Hashanah: Achot Ketanna, “la piccola sorella”, di Abraham Hazan, un canto struggente in cui la Shechinah partecipa al dolore dell’esilio, e si conclude con l’invocazione di un nuovo inizio. “La nostra piccola nazione” scrisse Freud, era riuscita a opporsi “alla distruzione della propria indipendenza” solo perché “in cima alla scala dei propri valori” aveva posto “il patrimonio spirituale, la religione e la letteratura nazionali” ed era normale, che di fronte alla “prospettiva di tornare in possesso della terra dei suoi padri con l’aiuto di una grande Potenza mondiale”, il popolo ebraico avesse “deciso di festeggiare questa circostanza fondando un’università nella sua antica capitale”. Albert Einstein, che fece di tutto perché il progetto si realizzasse, rilasciando interviste e intervenendo di persona, riteneva che la nascita dell’università fosse un elemento centrale del processo di risveglio culturale e del senso di appartenenza, in sintonia col pensiero di Ahad Ha’am, la nascita dell’Università era qualcosa da guardare in positivo e che riguardava l’intero popolo ebraico, non solo chi fuggiva dai pogrom e dalle persecuzioni.
La nascita dell’Università era la realizzazione di un centro spirituale e sociale, che avrebbero irradiato, in un clima di amicizia e di cooperazione con i popoli vicini, la sua energia a tutta la diaspora, non solo per chi avesse scelto di vivere nella Terra dei padri. Durante quella che fu la sua unica visita del paese, per dodici giorni nel 1922, era stato accolto come fosse il rappresentante più alto della nazione. Accolto con un colpo di cannone all’ingresso nella casa di Sir Hebert Samuel, l’alto commissario britannico, Einstein fu acclamato da una folla sognante, cui si rivolse esprimendo la gioia per il popolo ebraico dentro la storia. Il suo sogno era che la rinascita ebraica avvenisse in amicizia con i popoli dell’Oriente. In cambio della generosità araba, gli ebrei avrebbero contribuito con la loro laboriosità allo sviluppo di tutta la regione. La creazione dell’università è stata una grande conquista e uno stimolo per la nascita delle altre università israeliane: una fucina di Nobel.
Caso unico al mondo: sette premiati in un paese che conta una popolazione inferiore a otto milioni. Osservando i giovani che passano speditamente per i corridoi con i loro libri e con le loro speranze, ho pensato, durante una delle mie visite, che le foto sono sì delle finestre su un passato da ricordare e coltivare. Ma che in un certo senso erano lì per guardare noi dal passato. Come se quegli sguardi carichi di speranza, ma anche di angoscia per i pericoli, ci guardassero dal passato interrogandoci. Guardando quei visi, mi sono chiesto: “Saremo delle loro speranze e dei loro sogni?” Sì se sapremo fare in modo che i frutti dei loro sogni, possano essere duraturi e che la sfida più difficile, aprire un varco nel mondo che la circonda superando la logica del rifiuto di cui è oggetto, sarà vinta.
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