Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/03/2015, a pag. 8, con il titolo "Il Paese sempre in bilico tra islamismo e democrazia", l'analisi di Antonella Rampino.
Antonella Rampino
Forze tunisine fuori dal Museo del Bardo ieri
Ci eravamo dimenticati la Tunisia, la vittoria dei laici nelle storiche elezioni d’ottobre scorso, l’islamismo radicale che non era riuscito a fermare la transizione democratica, una società civile enormemente più libera che in qualsiasi altro Paese musulmano, comprese le minigonne in strada in mezzo a veli, hejab e niqab, ha fatto sì che non se ne parlasse: in fondo, la Tunisia prova a funzionare e quasi ci riesce. Con una Costituzione fresca di stampa nella quale, se è sempre e comunque la condizione femminile il più sensibile termometro del tasso di democrazia di una nazione, era appena stata iscritta non la legge islamica, la shaaria - come fu in Libia - ma la parità tra uomo e donna. Anche se, come ricorda una delle più importanti intellettuali e militante dei diritti umani, Saida Rached, «l’articolo 21 della Costituzione e il 45 perché le donne siano presenti nelle istituzioni quanto gli uomini sono solo un passo che ci mette in condizione di difendere e affermare la parità». Due passaggi, dice il ministro della Cultura Latifa Lakhadar, «che riconoscono il ruolo che abbiamo avuto nella rivoluzione scoppiata quattro anni fa».
Teatro e cultura
«L’opinione pubblica confonde la Tunisia con la Libia, crede che qui la situazione sia la stessa che a Tripoli, voi giornalisti avete la responsabilità di raccontare come stanno davvero le cose» ci diceva, solo pochi giorni fa, l’ambasciatore italiano a Tunisi Raimondo De Cardona, ricevendo l’équipe di «Ferite a morte» andata per la prima volta in scena in un Paese islamico con Serena Dandini ed Emma Bonino. Anche perché, aggiungeva, «la Tunisia ha bisogno di aiuto, servono investimenti esteri, che tornino i turisti», per non dire della miriade di imprese italo-tunisine negli alberghi, nella pesca, e del lavoro delle ong italiane nelle arretratissime zone rurali. Se così non fosse, sarebbe come aprire un’altra strada ai fondamentalisti e al Califfato anche laddove si fa di tutto per evitarlo, a cominciare dalla costruzione delle istituzioni democratiche.
Perchè a Tunisi, dopo le elezioni dell’ottobre 2014 vinte al 39 per cento dai laici del partito di Nidaa Tounes, e con gli islamici di Ennadha al 32 per cento, un accordo informale ha portato alla nascita di un governo che in Occidente chiameremmo di solidarietà nazionale. I due grandi partiti hanno fatto non pochi passi indietro, gli islamici si sono accontentati del dicastero del Lavoro e poco altro, e tutto per gli esponenti più moderati. I liberisti hanno avuto l’Economia. Ed è nata la commissione per la riconciliazione nazionale, affidata ad una donna, indipendente da ogni partito politico. Parallelamente, una retata di fondamentalisti ha messo al riparo il Paese dal grosso degli attacchi. Tutto il contrario, insomma, di quel che é accaduto in Egitto dove i Fratelli musulmani sono finiti tutti, moderati ed islamisti, nelle carceri dei militari che hanno rovesciato un risultato che aveva consegnato il paese nelle mani dei sunniti di Morsi.
Oggi, nel giorno dell’attacco terroristico al museo del Bardo, dov’è custodito il mosaico del ritratto di Virgilio, può sembrare un paradosso, ma aveva ragione e doppiamente ragione l’ambasciatore De Cardona.
I rischi dalla Libia
Non si sa, nel momento in cui scriviamo, se l’attacco sia stato mosso dallo Stato Islamico incistato in Libia. Si sa che lungo la sterminata zona dei confini con la Libia e del deserto che è il retroterra delle città costiere premono circa un milione di libici e profughi del Corno d’Africa. In un intreccio tra jihadisti e contrabbando è spuntato da quando il premier Essid ha messo al confine con la Libia un dazio di 30 dinari - circa la metà in euro - e controlli serrati sulle merci in transito: lì, in transito, c’é soprattutto il petrolio libico in nero, e le armi per i fondamentalisti. Sono scoppiate immediate proteste. E solo l’altroieri è stato ucciso un responsabile tunisino dell’Is rifugiatosi in Libia.
Si sa che all’interno premono anche quel milione e mezzo di disoccupati, per un tasso ufficiale del 15,4%: in gran parte scolarizzati, e fino alla laurea perchè il sistema impostato dall’autocrate predatore Ben Alì lasciava però relative libertà personali e imponeva l’istruzione: oggi, possono diventare prede della propaganda del Califfato.
Il viaggio di Renzi
Dunque, mentre la «rivoluzione del gelsomini» percorreva il suo arduo cammino, siamo noi che ci siamo dimenticati dalla Tunisia: e ci sorprendiamo a parlarne adesso, per un atto terroristico che sarebbe potuto accadere - e purtroppo è accaduto - anche a Londra, Roma o Parigi. Non se ne sono dimenticate però le istituzioni italiane. Il primo viaggio all’estero del premier Renzi, l’anno scorso, non a caso fu non a Bruxelles o a Berlino, ma a Tunisi. Il primo viaggio non europeo del presidente della Repubblica sarà, il 18 maggio, a Tunisi. Perché la Tunisia non é la Libia. E soprattutto non può e non deve diventarlo.
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