Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, a pag. 18, con il titolo "Netanyahu, trionfo da record, batte pure la campagna dell'odio", l'analisi di Fiamma Nirenstein; dalla STAMPA, a pag. 10, con il titolo "Patto di ferro con i nazionalisti: così Netanyahu resta al potere", l'analisi di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 38, con il titolo "Nelle urne ha prevalso la sindrome da accerchiamento", l'analisi di Davide Frattini.
Ecco gli articoli:
IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "Netanyahu, trionfo da record, batte pure la campagna dell'odio"
Fiamma Nirenstein
Ha ragione il negoziatore americano Aaron David Miller, mentre Obama fa dire ai suoi che collaborerà con qualsiasi governo eletto dal popolo israeliano: "La Casa Bianca dovrà lasciare lo champagne in ghiaccio per un altro po’". E non brinderanno nemmeno parecchi notabili dell'Unione Europea che si erano già preparati, nei giorni in cui i sondaggi gli davano quattro seggi di meno della sinistra (21 a 24) a gettare Benjamin Netanyahu nella spazzatura della storia. Il coro dei giornalisti che piamente difendono sempre i palestinesi contro Israele, non brinderà.
E naturalmente è in stato di shock Buji Herzog, il capo dell'Unione sionista, incredulo che Israele possa avere improvvisamente voltato le spalle all'ipotesi di averlo come Primo ministro di un governo di sinistra. Eppure Bibi ha preso fra i 29 e 30 seggi, e Buji è fermo a 24: la distanza, dopo un primo pareggio via via è aumentata durante la notte, e il Likud ha festeggiato il suo leader che combattendo una personale "Guerra dei Sei giorni" dopo che i sondaggi avevano iniziato a condannarlo alla sconfitta ha trascinato ai seggi col suo carisma personale, con la voce profonda, col curriculum di combattente e ardente sostenitore dello Stato ebraico, con la richiesta di aiuto contro una prospettiva pericolosa per l'esistenza stessa dello Stato... Un mare di elettori, e ha anche convinto i partiti del blocco di destra che era meglio votare per lui piuttosto che mantenere in piedi una propria casetta politica che non avrebbe poi ottenuto tutto quello che invece Bibi può gestire con la fede nel popolo ebraico (Bibi non è religioso) e con la grinta che lo caratterizza.
Così per esempio Naftali Bennet, capo del partito di destra “Casa ebraica" si è accontentato di 8 seggi, Yachad, il partito religioso di Eli Ishai è sparito dalla scena, e Ysrael Beitenu, il partito di Yvette Liberman, che ha avuto anche guai giudiziari, ha solo sei seggi. Una notevole variante è il “Partito arabo unito”, il terzo in assoluto con 14 seggi, che nelle prime ore della serata sembrava aver deciso di passare al blocco di sinistra, ma che via via ha visto riaprirsi le sue divisioni interne. Se Herzog stia prendendo in considerazione, invece del governo di sinistra che sognava l'idea di un governo di coalizione,non si sa ma è altamente probabile. Netanyahu però soffre il trauma del passato governo, aveva coperto Tzipi Livni di onori col ruolo di ministro della Giustizia e negoziatore coi palestinesi per poi vedersi attaccato furiosamente, e Lapid, ministro delle Finanze, ha chiesto agli elettori con vero odio di distruggere Netanyahu. Bibi opterà forse per un governo di destra anche con i religiosi, ma che incameri anche i dieci seggi di Moshè Kahlon, un personaggio che può conferire a Bibi credibilità nel campo sociale, la strada su cui aveva perso terreno. Come ha fatto Bibi a recuperare così rapidamente i voti perduti di fronte all'unione che aveva come slogan "Chiunque fuorché BIbi?”.
Lo si accusava di essere un fissato sulla sicurezza, lo si biasimava per aver distrutto i rapporti con Obama in nome della mania dell'Iran nucleare, si vedeva in lui la causa efficiente della rottura coi palestinesi e quindi delle costruzioni nei territori. Per controbattere, Bibi è semplicemente stato se stesso in modo intensivo. Ha parlato ovunque, ha spiegato di nuovo e di nuovo le ragioni della scelta prioritaria della sicurezza, ha puntato su chi non gli aveva dimostrato odio, ovvero la destra, ma non ha mai rinnegato un passato in cui c'è lo sgombero di Hevron, l'incontro di Wye Plantation con Arafat con conseguenti concessioni, ma anche la secessione dal suo padre spirituale Ariel Sharon quando decise di sgomberare Gaza nel 2005. Bibi è un realista, puoi non essere d'accordo con lui ma alla fine le sue analisi, e questo è ciò che i cittadini hanno percepito, sono sempre molto concrete in economia, in strategia.
Il suo primo mandato come Primo Ministro lo ebbe dopo essere stato un famoso, diretto, ambasciatore all'ONU, un'organizzazione ostile e aggressiva in cui la fece da domatore. Era il 1999 quando vinse contro Shimon Peres se fu Primo Ministro. Poi la sconfitta subita da Ehud Barak,il ritiro alla vita priva e il ritorno nel 2002, ministro degli Esteri. Il suo maggiore successo lo ottenne da ministro delle Finanze espandendo la privatizzazione, liberalizzando la circolazione del denaro e riducendo il deficit. Dal 2009 Bibi è stato di nuovo Primo Ministro di questa barchetta nel mare in tempesta del Medio Oriente. Un ruolo di primo piano che sembra non volere abbandonare, e che pare non voglia abbandonarlo finché, come diceva la sua più chiaccherata pubblicità elettorale, lui sarà il deciso "Bibi sitter" di Israele in un mondo in fiamme.
LA STAMPA - Maurtizio Molinari: "Patto di ferro con i nazionalisti: così Netanyahu resta al potere"
Maurizio Molinari e il suo recente libro "Il Califfato del terrore"
La vittoria a sorpresa di Benjamin Netanyahu nelle elezioni israeliane nasce da una brusca svolta a destra concordata con l’alleato ora destinato ad avere un ruolo di alto profilo nella nuova coalizione: Naftali Bennett. «Siamo in debito con i nazional-religiosi» dice Gilad Erdan, stretto collaboratore del premier nel primo commento dopo lo spoglio che assegna al Likud 30 seggi sui 120 in palio. E Netanyahu fa a Bennett la prima telefonata dopo la chiusura dei seggi, nonostante il suo «Habaiyt Hayehudì» (Casa Ebraica) sia sceso da 12 a 8 seggi.
Il travaso di voti
Ma è proprio questo arretramento che aiuta a capire dove si è originato il balzo in avanti del Likud che ha smentito sondaggi, previsioni ed analisti. Uri Ariel, parlamentare di «Habaiyt Hayehudì», lo spiega così: «Le destre hanno vinto perché i nostri amici nazional-religiosi hanno votato per il Likud». Guardando il dettaglio della mappa dei risultati elettorali arriva la conferma: negli insediamenti di Ariel e Maalei Adumim, roccaforti dei nazional-religosi Bennett, è il Likud ad aver stravinto. «C’è stato un travaso di voti dai partiti di destra al Likud - commenta Aluf Benn, direttore di Haaretz - che ha fatto la differenza perché il “Campo Sionista” di Isaac Herzog non è stato in grado di fare altrettanto alla propria sinistra nei confronti di Meretz e Yesh Atid».
Intesa con Casa Ebraica
Tutti i riflettori puntati su Bennett dunque, che commenta: «Non sono dispiaciuto per il nostro risultato in calo, al contrario guardo avanti nel lungo termine e sono fiero dei sionisti religiosi, siamo stati chiamati ad agire e lo abbiamo fatto alla grande». Ayelet Shaked, suo numero 3, lo riassume senza perifrasi: «È stato il sionismo religioso a salvare Netanyahu». La coalizione che ora «Bibi» si accinge a formare nasce dunque attorno al patto di ferro con Bennett, includendo anche «Israel Beitenu» di Avigdor Lieberman, «Kulanu» di Moshe Kachlon e i partiti religiosi «Shas» e «Unione per la Torà» per un totale di 67 seggi che garantisce maggiore stabilità rispetto all’esecutivo precedente. Venerdì saranno pubblicati i risultati ufficiali e il capo dello Stato, Reuven Rivlin, inizia domenica le consultazioni con tutti i partiti: vorrebbe un governo di «unità nazionale», con dentro anche il centrosinistra, ma è Herzog ad escluderlo. Chiama Netanyahu per fargli i complimenti e poi preannuncia «guideremo l’opposizione sperando in tempi migliori». Netanyahu può così andare al Muro del Pianto per ringraziare gli israeliani della «fiducia riposta in me» assicurando che «in tempi stretti» il nuovo governo vedrà la luce inaugurando una nuova stagione di politiche «su sicurezza, economia e sociale».
Le nuove strategie
Sulla sicurezza è dove il premier si è spinto più in avanti nel finale di campagna, promettendo «mai lo Stato palestinese» e «migliaia di nuove costruzioni negli insediamenti». Sono due posizioni riprese - letteralmente - da discorsi di Bennett e ciò preannuncia l’intenzione di lasciarsi alle spalle gli accordi di Oslo - firmati nel settembre 1993 fra Rabin, Peres ed Arafat - per concordare con i palestinesi un nuovo status quo. Fonti diplomatiche a Gerusalemme suggeriscono che Netanyahu ne avrebbe già accennato al presidente egiziano Al Sisi e al re giordano Abdallah, preparandosi a discutere tali «nuove idee» con l’amministrazione Obama dove la sua riconferma è stata ricevuta con disappunto. L’altro fronte riguarda invece le riforme economiche per la necessità di disinnescare lo scontento sociale che ha minacciato di far perdere le elezioni al Likud e qui in cattedra ci sarà Kachlun. Per il resto, in Israele è processo ai sondaggi errati: alla radice vi sarebbe un errata valutazione dei campioni perché su 7000 stazioni di rilevamento esistenti ad essere considerate sono sempre e solo 200, posizionate in gran parte in aree urbane laburiste e quasi del tutto assenti negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, da dove è arrivata la «resurrezione di Bibi» come la definiscono le tv locali.
CORRIERE della SERA - Davide Frattini: "Nelle urne ha prevalso la sindrome da accerchiamento"
Davide Frattini
«Oy gevalt» ha ripetuto il premier Benjamin Netanyahu nelle ultime quarantotto ore di campagna elettorale. C'è da aver paura. Degli arabi che votano in massa. Della sinistra che tiene la testa sotto la sabbia per non vedere l'avanzata dello Stato islamico. Degli ayatollah iraniani che vogliono la bomba atomica. «Israele è una villa nella giungla» ha insistito il leader della destra, ripetendo il motto creato da Ehud Barak, il soldato più decorato nella storia del Paese, già premier e ministro della Difesa.
«Solo che la reazione di Netanyahu — commenta lo scrittore Etgar Keret — è quella di barricarsi nella villa». Gli israeliani con il voto di martedì gli hanno ridato le chiavi per controllare il portone. Perché giocando con il suo soprannome il capo del Likud si è presentato in uno spot e in tutta la campagna elettorale come Bibi-sitter: l'unico adulto responsabile circondato da ministri infanti e infantili, inidonei a garantire la sicurezza del Paese. L'inquietudine per il futuro ha motivato gli elettori più delle angustie quotidiane: gli affitti altissimi, il costo della vita in crescita, le disuguaglianze economiche in un Paese che era stato fondato sull'etica socialista del kibbutz.
I temi che hanno dominato — almeno nella sceneggiatura dell'opposizione — i dibattiti sono rimasti inascoltati al momento di votare. Quel 56 per cento di israeliani che aveva dichiarato nei sondaggi di scegliere con l'economia in testa — e in tasca — ha dato retta allo stomaco, a quella stretta d'ansia, «siamo circondati, meglio affidarsi a Bibi». Netanyahu adesso promette di voler essere il leader di tutti. Anche di quegli arabi israeliani che ha additato come un commando all'assalto dello Stato ebraico solo perché stavano esercitando un loro diritto: andare alle urne. Anche di quella sinistra che si sente minacciata dai coloni estremisti, zittita dalle parole di incitamento gridate dai politici del Likud.
Quando è ritornato nella residenza ufficiale a Gerusalemme nel 2009 — e da allora c'è rimasto — quello che i sostenitori proclamano «re d'Israele» ripeteva di voler lasciare un'eredità al Paese, progettava una nuova era. Lui — figlio dell'assistente personale di Zeev Jabotinsky — era arrivato ad accettare l'idea di uno Stato per i palestinesi (impegno che ha ritrattato a un giorno dal voto). Non è successo niente.
Certo il Medio Oriente intorno è cambiato — in fretta e caoticamente — e quel disegno, per volontà o necessità, non si è mai realizzato. Come — ricordano i critici — non sono mai state realizzate quelle riforme che gli indignati israeliani del luglio 2011 invocavano dai megafoni sotto le jacarande di viale Rotschild a Tel Aviv. Israele ha attraversato la crisi finanziaria globale con meno scossoni, ha continuato a crescere ma sono cresciute anche le disparità: secondo i dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, è la nazione con il più alto indice di povertà (21 per cento) tra quelle del mondo sviluppato, nel 1995 era il 13,8 (e in questi vent'anni l'economia è stata gestita da Netanyahu anche come ministro delle Finanze).
Il leader conservatore ha già totalizzato nove anni da premier. Se la nuova coalizione che sta formando in questi giorni è stabile, potrebbe restare in carica fino al 2019. Solo David Ben-Gurion, il padre fondatore della patria, ha per ora guidato il Paese più a lungo. Netanyahu — che ha irritato gli alleati europei e americani — dovrà lavorare perché la villa non resti isolata nella giungla.
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