Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/03/2015, a pag. 1-31, con il titolo "Una doppia mancata vittoria", l'analisi di Roberto Toscano; dal CORRIERE della SERA, a apg. 1-27, con il titolo "In Israele l'ipotesi di unità nazionale", l'analisi di Antonio Ferrari; da REPUBBLICA, a pag. 4, con il titolo "La mossa di Bibi: cancellare la crisi per illudere il popolo dei kibbutz", l'analisi di Paul Krugman; seguono i nostri commenti a un pezzo di Sayed Kashua e alle dichiarazioni di Federica Mogherini riportate da REPUBBLICA e all'articolo di Ugo Tramballi pubblicato sul SOLE 24 ORE.
Ecco gli articoli, preceduti dai nostri commenti:
In fila al seggio. Quella di ieri è stata una grande festa di democrazia in Israele
LA STAMPA - Roberto Toscano: "Una doppia mancata vittoria"
L'analisi di Roberto Toscano parte dai dati degli exit polls di ieri sera, che si sono poi rivelati sbagliati. In ogni caso, Toscano critica i due schieramenti principali che si sono contrapposti in queste elezioni, e in particolare Netanyahu. Del leader del Likud viene detto che sarebbe "in corsa verso una destra estrema". Non è vero, un'altra delle cantonate dell'inesperto Toscano.
Ecco il pezzo:
Roberto Toscano
Match nullo in Israele? Secondo gli exit poll, Likud e Unione Sionista avrebbero ottenuto voti per 27 seggi ciascuno.
A questo punto appare inevitabile, invece di spiegare le ragioni di un’inesistente vittoria, capire quelle di una doppia mancata vittoria: perché non c’è stato il sorpasso che negli ultimi giorni era sembrato possibile, ma anche perché il risultato dell’opposizione a Netanyahu sia stato consistente.
Nel cercare di interpretare le ragioni di questo risultato sarebbe opportuno resistere alla troppo frequente tentazione di attribuire il voto israeliano prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, alla «questione palestinese» – o per essere più precisi al rapporto fra sicurezza, possibili negoziati di pace e i futuri assetti politici e territoriali. Che si cada in questo equivoco al di fuori dei confini del Paese è anche comprensibile, vista la drammaticità che caratterizza da oltre 60 anni – e anche prima dell’indipendenza di Israele – i rapporti fra ebrei e arabi in quella terra ricca di storia e di spiritualità ma anche di ostilità apparentemente inconciliabili.
E’ evidente, e comprensibile, la costante, pervasiva preoccupazione di sicurezza che si impone a un Paese che non ha conosciuto una vera pace fin dalla sua fondazione. Un Paese che vive nell’insicurezza costante. Un paradosso, se si pensa che il sogno sionista, realizzato con lo Stato d’Israele, avrebbe dovuto finalmente permettere agli ebrei di vivere senza la costante minaccia delle ripetute persecuzioni patite nella diaspora plurisecolare – ultima e più tragica quella nazista.
Netanyahu ha puntato tutto sulla rivendicazione di una legittimazione politica basata sulla paura, ed evidentemente in parte questo ha funzionato. Ma, e questo spiega il «pareggio», non ha tenuto conto del fatto che il cittadino israeliano non ha solo paura per la propria sicurezza, ma è anche portatore di bisogni e richieste di tipo sociale ed economico. Vuole certo essere protetto, ma ha anche una vita quotidiana da vivere, e oltre alla sicurezza esige anche benessere e giustizia.
L’«Unione Sionista» non è un’alleanza pacifista, e sarebbe assurdo definire il suo leader il laburista Isaac Herzog (puro establishment, figlio di un Presidente della Repubblica e nipote del primo Rabbino Capo di Israele) o la sua alleata Tzipi Livni (ex agente del Mossad) come poco sensibili alle esigenze di sicurezza o pronti a fare pericolose concessioni ai palestinesi. Si tratta di due centristi, che solo la corsa di Netanyahu verso una destra estrema, e la sua alleanza con oltranzisti come Lieberman e Bennett, potrebbe far ritenere, a confronto, come «di sinistra». Politici, Herzog e Livni, che hanno preso nota che il voto sarebbe stato anche determinato da temi come la disuguaglianza (che in Israele ha raggiunto un livello dei più alti fra i Paesi sviluppati), o dal fatto che per la maggior parte della popolazione, soprattutto i giovani, un alloggio, sia in proprietà che in affitto, sia diventato ultimamente quasi irraggiungibile.
Ma persino sui temi della sicurezza Netanyahu sembra avere commesso errori molto seri che spiegano come non sia riuscito ad andare oltre una sostanziale tenuta. Gli Stati Uniti non sono forse più la «nazione indispensabile» della retorica americana, ma rimangono indispensabili per Israele e la sua sicurezza. Non si tratta solo dei miliardi di dollari in aiuti militari, ma anche della protezione politica fornita a livello internazionale, con oltre 40 veti esercitati da Washington nel Consiglio di sicurezza per evitare una risoluzione di condanna ad Israele.
Ebbene, con la sua azzardata provocazione del discorso al Congresso, Netanyahu non ha solo sfidato Obama, ma in realtà ha danneggiato profondamente quel rapporto, essenziale per la sicurezza, che richiederebbe bi-partisanship e non allineamento con una sola componente, quella repubblicana, della politica americana. Non si può credere che questo sia sfuggito agli elettori.
Va poi aggiunto che anche in tema di sicurezza Netanyahu è risultato meno che convincente, se si pensa alla clamorosa sproporzione fra il suo silenzio nei confronti del pericolo jihadista (Al Qaeda e Isis sono davvero alle porte) e la sua esasperata e ripetuta denuncia di un intento genocida di un Iran a un passo dall’arma nucleare – una valutazione su cui non concorda nemmeno la maggioranza dei vertici della Idf e del Mossad.
D’altra parte la sfida di Herzog non è riuscita a prevalere perché la «questione palestinese» resta un convitato di pietra che si può evitare di menzionare ma certo non eludere. Non sapremo mai fino a che punto la durissima presa di posizione di Netanyahu a poche ore dall’apertura delle urne («Nessuno Stato palestinese se sarò io il primo ministro») abbia potuto spostare un significativo numero di voti, ma non possiamo certo escluderlo.
E ora? Ora non è da escludere che il successore di Netanyahu sia ancora una volta Netanyahu, sostenuto da un’alleanza con i partiti nazionalisti e anti-palestinesi più estremi, o anche come primo ministro di una «Grande coalizione» Likud/Laburisti che potrebbe essere il risultato di questo match nullo dal punto di vista elettorale.
Uno sblocco del dramma israelo-palestinese non sembra comunque nelle carte.
Forse l’unica indicazione di cambiamento che emerge da queste elezioni è il fatto che i cittadini arabi di Israele hanno votato in massa, e la loro «Lista Unica» sarà probabilmente, con 13 parlamentari, il terzo partito nella Knesset. E’ una rivendicazione di diritti e di appartenenza (come ha detto un elettore arabo, «io sono di qui, è Lieberman che viene dalla Russia») resa possibile dai meccanismi della democrazia israeliana, ma che la mette anche alla prova.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari: "In Israele l'ipotesi di unità nazionale "
Anche Antonio Ferrari fonda la propria analisi sui dati parziali degli exit polls. Ecco in ogni caso l'articolo:
Antonio Ferrari
«Il nostro primo dovere è salvare l’anima di Israele». Lo diceva il grande Ben Gurion, lo ripeteva Yitzhak Rabin, lo ricordava Shimon Peres. Ma era anche il pensiero di Menachem Begin e persino di Ariel Sharon, che ha riscattato un passato assai discutibile con atti di straordinario coraggio, compiuti da primo ministro. Ieri, nelle urne, è stata salvata l’anima di Israele? È troppo presto per saperlo, perché il risultato non è chiaro. Quindi, è legittimo dubitare che qualcuno sia riuscito nell’impresa. Benjamin Netanyahu, con un colpo di reni, è riuscito a rimontare il consistente svantaggio che tutti i sondaggisti avevano previsto.
Anzi, alla fine è cresciuto molto, cannibalizzando i piccoli partiti della destra. In sostanza, è quasi assoluta parità con il tandem dell’Unione sionista composto dal laburista Herzog e dalla centrista Tzipi Livni, che avanza con determinazione. Però non si comprende ancora compiutamente se il risultato delle urne in queste Idi di marzo politiche di Israele si raccorderà o meno alla volontà del grandi leader del passato. In Israele è difficile sapere chi ha vinto, quindi è quasi impossibile comporre a caldo il quadro delle alleanze. Troppi i distinguo, troppi i veti, i veleni e le diffidenze. Le ultime mosse del premier uscente parlano il linguaggio dell’isolazionismo politico internazionale. La reazione di una parte della società, e non soltanto a destra, è quella dell’indifferenza. I giovani pensano al lavoro e assai meno al processo di pace. Bibi — si sa — è pronto a tutto pur di restare in sella. Ieri ha invitato l’elettorato di destra a tornare tra le sue braccia, sostenendo poi che gli arabi israeliani stavano andando a votare in massa, rafforzando il fronte della sinistra.
Passo, ad urne aperte, che ha provocato reazioni stizzite, con accuse al premier uscente di razzismo. Tutto questo è accaduto, dopo che Netanyahu aveva promesso solennemente che mai e poi mai, se verrà eletto, vi sarà uno stato palestinese. Beata coerenza, visto che durante la campagna elettorale del 2009, in un discorso all’Università di Bar Ilan, aveva detto il contrario, sostenendo la soluzione dei due Stati. È chiaro che il presidente Reuven Rivlin darà l’incarico a chi ritiene di avere una sicura maggioranza. È molto probabile che, anche se fosse possibile a uno dei due maggiori contendenti contare su complessivi 61 seggi su 120, non basterebbe. A questo punto affiora una possibilità: il governo di unità nazionale, come lo stesso Rivlin vorrebbe. È già accaduto nel passato, dal 1984 al 1988, quando Likud e laburisti governarono insieme, con la staffetta Yitzhak Shamir-Shimon Peres.
Ma stavolta è assai più arduo, c’è chi dice impossibile, perché destra e centro-sinistra sembrano agli antipodi su tutto, a cominciare dal negoziato di pace con i palestinesi. Chi credeva di liberarsi di Netanyahu, ha perso. In sostanza, con queste elezioni anticipate, non è cambiato molto. C’è chi pensa che non sia cambiato niente.
LA REPUBBLICA - Paul Krugman: "La mossa di Bibi: cancellare la crisi per illudere il popolo dei kibbutz"
Come tutti i Paesi del mondo, anche in Israele i problemi economici non mancano. Eppure negli ultimi anni, mentre l'Europa e l'Italia erano travagliate dalla crisi, in Israele la crescita è continuata. Perché Krugman trascura questo aspetto?
Ecco il pezzo:
Paul Krugman
Perché il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sentito il bisogno di sollevare un polverone a Washington? Perché questo è stato quello che ha fatto con il suo discorso al Congresso contro l’Iran. Se stai cercando di influenzare la politica estera americana, non insulti il presidente, allineandoti con la sua opposizione politica. No, il vero scopo di quel discorso era distrarre l’elettorato israeliano con una retorica bellicosa per spostare l’attenzione dall’insoddisfazione per l’andamento dell’economia. Un momento, però: perché gli israeliani sono scontenti? Dopo tutto, l’economia israeliana ha avuto dei buoni risultati, entro i limiti abituali. Ha sopportato la crisi finanziaria con il minimo danno. Nel lungo periodo, è cresciuta più rapidamente della maggior parte delle altre economie avanzate e ha sviluppato una politica energetica ad alta tecnologia. Di che cosa ci si lamenta?
La risposta, che non credo qui sia molto apprezzata, è che l’economia israeliana è cresciuta, ma questa crescita è stata accompagnata da un’inquietante trasformazione nella distribuzione del reddito nel Paese e nella società. Una volta Israele era un paese dagli ideali egualitari: il popolo dei kibbutz è sempre stato una piccola minoranza, ma aveva un grande impatto sulla percezione di sé della nazione. Ed in realtà era anche una società abbastanza egualitaria fino ai primi anni Novanta. Da allora, tuttavia, Israele ha sperimentato un drammatico aumento delle disparità di reddito. I termini fondamentali della disuguaglianza sono saliti alle stelle; Israele è ora, come l’America, una delle società meno egualitarie del mondo avanzato. E l’esperienza di Israele dimostra che questo ha un peso, che l’estrema disuguaglianza ha un effetto corrosivo sulla vita sociale e politica.
Si consideri quanto è successo alle due estremità dello spettro economico: da una parte, la crescita della povertà, dall’altra, una ricchezza estrema. Secondo i dati del Luxembourg Income Study, la quota di popolazione israeliana che vive con meno della metà del reddito medio del paese (una definizione ampiamente accettata di povertà relativa) è più che raddoppiata, salendo dal 10,2 per cento al 20,5 per cento tra il 1992 e il 2010. La quota dei bambini in condizioni di povertà si è quasi quadruplicata, passando dal 7,8 per cento al 27,4 per cento. Entrambi questi dati sono i peggiori nel mondo avanzato, e con ampio margine. E quando si tratta di bambini, in particolare, la povertà relativa è il parametro da considerare. Le famiglie che vivono con redditi molto più bassi rispetto a quelli dei loro concittadini, saranno emarginate in maniera importante dalla società che le circonda, incapaci di partecipare pienamente alla vita della nazione.
I bambini che crescono in queste famiglie subiscono di sicuro una condizione di svantaggio permanente. All’altro estremo, anche se i dati disponibili non mostrano una quota particolarmente grande del reddito nelle mani dell’1 per cento all’apice — cosa sconcertante — vi è un’estrema concentrazione di ricchezza e di potere in un minuscolo gruppo di persone al vertice. E sottolineo minuscolo. Secondo la Bank of Israel, sono una ventina le famiglie che controllano le aziende che rappresentano la metà del valore totale del mercato azionario di Israele. La natura di tale controllo è contorta e oscura, opera attraverso “piramidi” in cui una famiglia controlla una società che a sua volta controlla altre imprese e così via. Anche se la Bank of Israel si esprime con grande cautela, è chiaro che è preoccupata dal potenziale di selfdealing che si crea con una tale concentrazione del controllo.
Tuttavia, perché la disuguaglianza israeliana è una questione politica? Perché non doveva giungere a questi estremi. Si potrebbe pensare che la disuguaglianza in Israele sia il risultato naturale di un’economia ad alta tecnologia che genera una forte domanda di manodopera qualificata — o, forse, riflette l’importanza delle popolazioni minoritarie con redditi bassi, cioè arabi ed ebrei ultraortodossi. Si scopre, però, che questi alti tassi di povertà riflettono in gran parte scelte politiche: Israele fa di meno per sollevare le persone dalla povertà rispetto a qualsiasi altro paese avanzato — sì, anche meno degli Stati Uniti. Nel frattempo, gli oligarchi di Israele devono la loro posizione non all’innovazione e allo spirito imprenditoriale, ma al successo delle loro famiglie nell’acquisire il controllo delle imprese che il governo privatizzò negli anni Ottanta — e probabilmente sono in parte riusciti a mantenere questa posizione esercitando un’indebita influenza sulla politica del governo, assieme al controllo sulle banche più importanti. In breve, l’economia politica della Terra promessa è oggi caratterizzata da un grande disagio in basso e da una forse non piccola corruzione in alto.
E molti israeliani vedono in Netanyahu una parte del problema. Sostiene una politica di libero mercato; ha una tendenza a vivere alla grande a spese dei contribuenti, anche se tenta maldestramente di sostenere il contrario. Dunque, Netanyahu ha cercato di cambiare argomento, spostandolo dalla disuguaglianza interna alle minacce esterne, una tattica molto familiare a chiunque ricordi gli anni dei Bush.
(2015 New York Times News Service Traduzione di Luis E. Moriones)
LA REPUBBLICA propone, a pag. 6, l'opinione dello scrittore arabo israeliano Sayed Kashua. Non riprendiamo l'articolo, per capirne il tenore basta una frase: Kashua confida le proprie speranze nel leader della Lista Araba Unita, Ayman Odeh, e sostiene che "è ancora possibile impedire la discesa nell'abisso dell'apartheid".
Ma quale apartheid? Kashua non si rende conto che il sistema israeliano è tanto democratico da consentire la presenza in Parlamento di un grande partito arabo antisionista come quello di Odeh? Non si rende conto che Israele è l'unico luogo di tutto il Medio Oriente in cui gli arabi hanno pieni diritti come cittadini, a partire da quello di voto?
Kashua, che predica tanto i valori democratici, è lo stesso che nel 2008 rifiutò di partecipare - malgrado fosse stato ufficialmente invitato- al Salone del Libro di Torino, perchè l'ospite d'onore era Israele, "il paese che opprime il mio popolo", così scrisse alla direzione del Salone.
Sayed Kashua
Ancora REPUBBLICA, a pag. 7, pubblica un articolo sull'influenza del voto in Israele sul negoziato iraniano. Viene intervistata Federica Mogherini, che non solo auspica una rapida conclusione del negoziato che di fatto offrirebbe su un piatto d'argento al regime teocratico di Teheran la bomba atomica, ma addirittura sostiene come "il voto in Israele non inciderà" sui negoziati. Strano, l'unica democrazia presente in tutto il Medio Oriente dovrebbe contare qualcosa quando si tratta di limitare la possibilità che il più grande finanziatore di terrorismo degli ultimi decenni possa disporre di armi nucleari. Ha vinto Netanyahu, che la pensa in modo opposto a Obama. Ma questo la smemorata ministra degli esteri dell' Europa lo ignora. Come tante altre cose. Qualcuno le suggerisca un corso accelerato di ripetizioni.
Federica Mogherini
IL SOLE 24 ORE, a pag. 23, pubblica il solito articolo disinformante di Ugo Tramballi. Nella prima parte del pezzo Tramballi elenca i risultati fidandosi ciecamente degli exit polls di ieri sera, poi smentiti dai risultati reali. Nella seconda parte prende di mira Netanyahu, giungendo a dire che "assomiglia sempre più al generale Al Sisi e a Vladimir Putin". Come può un giornale che pretende di essere credibile pubblicare simile propaganda?
Ugo Tramballi
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