domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
17.03.2015 Israele: identità ebraica e responsabilità
Analisi di Abraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 17 marzo 2015
Pagina: 36
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Perché l'identità ebraica si completa solo in Israele»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/03/2015, a pag. 36-37, con il titolo "Perché l'identità ebraica si completa solo in Israele", l'analisi di Abraham B. Yehoshua.


Abraham B. Yehoshua

Chi è inglese, thailandese, francese o polacco?
Qualunque risposta a questa domanda implicherebbe una distinzione fra cittadinanza e identità, due definizioni che non necessariamente si sovrappongono. Mio nipote, per esempio, è nato negli Stati Uniti d’America dove i suoi genitori risiedevano temporaneamente per lavoro e ha automaticamente ottenuto la cittadinanza americana verso la quale ha ben pochi obblighi, mentre la sua identità è ovviamente israeliana. Se io lo definissi americano lui protesterebbe e si offenderebbe.



Un pachistano appena arrivato all’aeroporto londinese di Heathrow che ha ereditato la cittadinanza britannica dal padre o dal nonno è riconosciuto come inglese pur non sapendo una parola della lingua locale e non avendo mai sentito nominare Shakespeare o Lord Byron. La sua cittadinanza britannica gli dà gli stessi diritti e doveri che ha il Primo Ministro, sebbene l’identità dei due sia completamente diversa.

Cittadinanza e identità al giorno d’oggi non sono la stessa cosa. È vero che per la stragrande maggioranza degli esseri umani identità e cittadinanza coincidono. Ma milioni di persone al mondo (tra cui molti ebrei) pur essendo in possesso di una particolare cittadinanza si ritengono di identità diversa.
Comprendere la differenza tra identità e cittadinanza è fondamentale per rispondere alla domanda chi è israeliano. Per quanto riguarda la cittadinanza tutti coloro che sono in possesso di una carta di identità israeliana sono cittadini dello Stato con pari diritti e doveri. Ma non tutti quelli in possesso di una carta di identità israeliana si ritengono israeliani. Un milione e mezzo di arabi residenti in Israele si definiscono palestinesi. Sono una minoranza etnica nella loro terra – una situazione piuttosto comune nel mondo di oggi – e dunque non diversi da altre etnie come quella basca, curda o francese del Quebec. Occorre però ricordare che la minoranza israelo-palestinese non è stanziata in un particolare territorio. Per quanto la riguarda l’intera Palestina – e tutto il territorio di Israele – è la sua patria. La sua autonomia è quindi unicamente culturale.

Naturalmente ci sono molti elementi di scambio fra l’identità di una maggioranza e la nazionalità di una minoranza. L’identità degli ebrei francesi, per esempio, è fortemente influenzata dalla loro cittadinanza ed è probabile che la loro nazionalità francese sia in qualche modo influenzata dalla loro identità ebraica. Lo stesso vale per Israele. L’identità degli arabi israeliani (anche grazie alla lingua ebraica) comprende elementi dell’identità israeliana e contribuisce a plasmarla. Quando un arabo israeliano presiede il processo al presidente dello Stato in qualità di giudice o amministra un ospedale e stabilisce nuove procedure di ricovero, contribuisce a forgiare i canoni dell’identità israeliana così come un giudice ebreo-americano presso la Corte Suprema degli Stati Uniti è parte integrante e determinante del sistema legislativo americano. Eppure c’è ancora una differenza tra identità e cittadinanza. E chi, come gli ebrei, lo ha dimostrato nel corso della storia e lo dimostra tuttora in molte parti del mondo.

Il termine «israeliano» non si riferisce solamente a una cittadinanza comune a ebrei e ad arabi, ma indica un’identità. Se in Israele non ci fossero palestinesi lo Stato si chiamerebbe comunque «Israele» e i suoi cittadini «israeliani» e non «ebrei». «Ebrei», peraltro, è una denominazione tardiva apparsa per la prima volta nella diaspora in riferimento a Mardocheo che combinò a Susa un matrimonio tra sua cugina Ester e il re Assuero. Se Mosè, re Davide e i profeti Isaia, Geremia e Samuele arrivassero in visita alla Knesset e il presidente di quest’ultima chiedesse loro di presentarsi non c’è dubbio che la loro risposta sarebbe: «Noi siamo israeliani» oppure «Noi apparteniamo al popolo di Israele». E se il presidente, sorpreso, domandasse loro: «Siete ebrei?» la risposta sarebbe: «Non sappiamo a cosa lei si riferisca con questo termine».
Il termine «giudeo» o «ebreo» non compare nel Siddur, il libro di preghiere della liturgia quotidiana, nemmeno una volta mentre nella Mishnah si insiste sull’uso del termine «israeliano» anziché «ebreo».

Secondo la tradizione fu Dio stesso a scegliere il nome «Israele». Pertanto anche il nome della regione in cui il popolo si stanziò è «terra di Israele» e nelle università si studia il pensiero filosofico di Israele, la storia del popolo di Israele e la letteratura di Israele. E naturalmente il nome dello Stato sorto nel 1948 è Israele. Quindi ci si domanda cosa sia mai successo negli ultimi venti o trent’anni per cui i termini «ebreo», «ebraismo», «Stato ebraico» stanno a indicare un’identità israeliana e hanno relegato il termine «israeliano» a designare la mera cittadinanza.

È possibile che un abitante di Madrid consideri la sua cittadinanza spagnola un semplice denominatore comune a lui, a un basco o a un catalano anziché vedere in essa un’identità profonda e dalle molteplici radici?
A mio parere almeno quattro diversi fattori, talvolta contrapposti, hanno contribuito a far sì che il termine «israeliano» indichi la sola cittadinanza.

1) Innanzi tutti le varie correnti religiose. Sebbene il termine «ebreo», come ho detto sopra, non racchiuda necessariamente alcun elemento religioso, per gli ortodossi è chiaro che se il sostantivo «israeliano» si limiterà a designare la cittadinanza, la parola «ebreo», svuotata di obblighi civili, richiamerà contenuti religiosi. Immaginiamo un rabbino militare che domanda a un soldato: «Chi sei?» E quello risponde con innocenza «Io sono israeliano, presto servizio nell’esercito e parlo ebraico». Al che il rabbino risponde: «Tutto qua? Anche un druso è israeliano come te, presta servizio nell’esercito e parla ebraico, qual è allora la differenza tra voi?». E mentre il soldato, imbarazzato, comincerà a balbettare il rabbino militare gli proporrà di riempire il vuoto di identità con «la tradizione ebraica», vale a dire con la religione. A questa tattica collaborano non solo i rappresentanti del partito politico «Habait Hayehudì» e varie correnti ortodosse ma anche riformisti e persone in cerca di «radici», che tentano di riversare nell’identità israeliana contenuti religiosi attinti principalmente dagli scritti sacri e dalla letteratura rabbinica esegetica.

2) Un secondo fattore che contribuisce a limitare il termine «israeliano» alla sola cittadinanza è rappresentato dagli ebrei della diaspora e da chi è impegnato a mantenere un legame con loro. Ora che il termine «israeliano» esprime anche la specifica appartenenza a uno stato gli ebrei della diaspora hanno bisogno di differenziarsi da esso per evitare di essere formalmente identificati come suoi cittadini. Viceversa, tutti coloro che operano per mantenere vivo il rapporto tra gli ebrei della diaspora e Israele e promuovere l’immigrazione utilizzano il termine «popolo ebraico» come unico elemento in grado di creare aggregazione e un senso di solidarietà. Ma anziché proporre agli ebrei della diaspora di migliorare e approfondire il loro ebraismo adottando l’identità israeliana il messaggio è il seguente: «Venite a rafforzare la parte ebraica di Israele contro i suoi cittadini arabi».

3) Un terzo fattore – completamente diverso e con interessi opposti a quelli precedenti – è rappresentato dagli stessi arabi. Costoro dicono agli israeliani: «Voi, di fatto, siete ebrei, proprio come i vostri confratelli d’America, d’Inghilterra o d’Argentina. Per più di duemila anni avete vissuto sparsi per il mondo e mantenuto le vostre tradizioni e la vostra identità. Perché siete venuti ad ammassarvi nella nostra terra, portandocela via e mettendo in pericolo voi stessi? Dopo tutto siete parte del popolo ebraico. L’identità ebraica, sia da un punto di vista religioso che nazionale, non ha bisogno di un territorio e di una sovranità per essere plasmata. Per secoli gli ebrei hanno vissuto qui, in terra di Israele e in tutto il Medio Oriente, e il loro stile di vita e le loro aspirazioni non erano diversi da quelle degli ebrei della diaspora. Perché mai avete bisogno di una sovranità e di una identità israeliane?».

4) Il quarto fattore che opera per relegare in un angolo l’identità israeliana – completamente diverso dai primi tre – è rappresentato dai post sionisti che vorrebbero una nazione nuova, separata e slegata dall’identità ebraica della diaspora, sia da un punto di vista storico che religioso (in uno spirito «cananeo»). Per loro un Israele «Stato di tutti i suoi cittadini» non è solo una giusta richiesta di uguaglianza ma anche, in una certa misura, una pretesa sempre più forte di sovrapposizione tra cittadinanza e identità. In altre parole vorrebbero un appannamento dell’identità storica israeliana e la sua sostituzione con una cittadinanza generica, analoga a quella americana o australiana.

Questi quattro fattori (sommati ad altri, in diverse varianti) minano la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa che intendo promuovere.

«Nessuna comunità e nessun ebreo, neppure uno come te, può vivere il giudaismo e nel giudaismo e condurre un’esistenza pienamente ebraica nella diaspora. Solo in Israele ci può essere un’esistenza simile. Solo qui fiorirà una cultura ebraica degna di questo nome, ebraica al cento per cento e umana al cento per cento. Gli scritti sacri non sono che una parte, un settore della cultura.

La cultura di un popolo è fatta di campi, di strade, di case, di aeroplani, di laboratori, di musei, di un esercito, di scuole, di un governo autonomo, di panorami del suolo natio, di teatri, di musica, della lingua, di memorie, di speranze e di tanto altro ancora. Un ebreo completo, un essere umano completo, senza lacerazioni e senza frapposizioni tra il suo essere ebreo e il suo essere umano, tra il cittadino e il pubblico – non può esistere in terra straniera».
Queste incisive parole, portate di recente alla mia attenzione, furono scritte dal Primo Ministro israeliano David Ben Gurion negli Anni Cinquanta a un ebreo della diaspora di nome Ravidovic. Parole analoghe, da me pronunciate qualche anno fa durante un discorso ai membri del Comitato ebraico americano di Washington, hanno provocato reazioni burrascose. Nessuno, infatti, è felice di sentirsi dire che l’identità che gli sta a cuore è incompleta. Ma quando mi sono reso conto che anche in Israele molti disapprovano questa mia opinione ho capito che qualcosa di fondamentale si è deteriorato nella comprensione del cambiamento sostanziale avvenuto nell’identità ebraica con la creazione di Israele. E questo è sorprendente dal momento che in passato, agli albori del sionismo e subito dopo la fondazione dello Stato di Israele, la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa era naturale per molti.

Di recente, infatti, si è verificato un preoccupante regresso dovuto, come si è detto, a fattori diversi e contrastanti, in primis alle varie correnti religiose.
È vero che per duemila anni è esistito un unico modello di identità ebraica. Gli ebrei vivevano in mezzo ad altri popoli, in nazioni che consideravano straniere, dominate da religioni e da etnie diverse e in cui si parlavano lingue straniere.

Gli ebrei, come minoranza etnica in perenne movimento, partecipavano in diversa misura alla vita che ferveva intorno a loro mentre la loro identità ebraica toccava solo determinati aspetti della loro esistenza. Inoltre (ed è questo a mio parere il cambiamento fondamentale avvenuto con l’istituzione di una sovranità ebraica in Israele) nella diaspora nessun ebreo esercitava, o tuttora esercita, alcuna autorità sui propri connazionali. Gli ebrei sono liberi gli uni nei confronti degli altri e non hanno alcun obbligo verso i loro confratelli che non sia dettato dalla loro volontà. La loro vita è governata dai gentili alla cui autorità devono sottoporsi. Di più. La responsabilità collettiva degli ebrei è puramente volontaria. Una sciagura degli ebrei russi non impone alcun aiuto da parte degli ebrei italiani che non scaturisca da una loro scelta. Non ha perciò senso parlare di un destino comune ebraico. Quando Londra fu bombardata durante il blitz tedesco anche cittadini di Liverpool o di Leeds parteciparono alla sua difesa e abitanti di Manchester furono inviati a combattere contro i tedeschi nel deserto occidentale. Il piano di austerità deciso dal governo britannico fu imposto a tutti i cittadini, ovunque si trovassero.

Questo è un destino comune e secondo questa definizione si può dire che esista un destino comune israeliano o palestinese. Ma quando gli ebrei furono mandati nei campi di sterminio in Polonia i loro connazionali a New York, in Brasile o in Iran continuarono a condurre la solita vita. E quando gli ebrei furono espulsi dalla Spagna i loro confratelli iracheni o tedeschi continuarono a svolgere pacificamente il loro lavoro. Il destino degli ebrei nella storia è determinato, nel bene e nel male, dai popoli in mezzo ai quali vivono.

L’identità israeliana restituisce agli ebrei il controllo su altri ebrei, come durante il periodo del primo e del secondo Tempio, e una inevitabile responsabilità reciproca. In Israele gli ebrei pagano le tasse in base a una legge creata da ebrei, vanno in guerra per volontà di altri ebrei, proteggono insediamenti che forse disapprovano o ne evacuano altri ritenuti sacri dai loro residenti. Questa interazione crea una struttura identitaria ricca e infinitamente più significativa da un punto di vista esistenziale e morale di quella esistente nella diaspora dove il dibattito è puramente concettuale, senza capacità impositiva.

Di colpo tutte le componenti della vita si aprono all’identità ebraica che in questo modo si trasforma in israeliana e nuove questioni etiche, delle quali gli ebrei non si sono mai occupati e non si occupano nella diaspora, si presentano come sfide agli israeliani che si trovano a dover prendere delle decisioni, nel bene o nel male, e non solo a disquisire di dubbi teorici.

Come deve essere un carcere israeliano? Quali devono essere le dimensioni delle sue celle? Quali procedure occorre seguire durante un arresto? Fino a che punto è possibile e moralmente consentito torturare un pericoloso terrorista per estorcergli informazioni importanti? È permesso vendere armi a un regime dittatoriale in Africa al fine di evitare la disoccupazione nell’industria bellica israeliana?

I valori nazionali sono determinati non solo dal dibattito ma dall’azione. È facile per un rabbino di una sinagoga di Chicago sventolare di sabato «l’etica ebraica», spanderne il profumo fra i suoi ascoltatori e poi riporla nel suo scrigno. In Israele l’etica ebraica è talvolta determinata dall’inclinazione del fucile di un soldato davanti a una manifestazione di palestinesi. L’etica ebraica viene messa alla prova ogni giorno e ogni ora, in mille occasioni. Perciò al giorno d’oggi è più facile essere ebreo nella diaspora e affrontare le grandi questioni esistenziali come cittadino (spesso un po’ in disparte) di un’altra nazione.

Anche gli ebrei religiosi israeliani ampliano notevolmente la loro identità e sono chiamati a prendere decisioni che nessuno pretende dai loro confratelli nella diaspora. Un israeliano credente è chiamato, esattamente come un laico, a decidere con il suo voto se investire nel settore militare piuttosto che in quello sanitario. Può giustificare la sua posizione basandosi sugli scritti sacri, ed è persino auspicabile che lo faccia, ma tali giustificazioni dovranno confrontarsi con argomentazioni provenienti da fonti diverse. E ciò che verrà deciso diventerà legge.

Una lezione di Talmud in un’Accademia rabbinica non rappresenterà perciò una maggiore espressione di identità ebraica di quanto non lo sia un dibattito della commissione parlamentare israeliana per la prevenzione degli incidenti stradali. È la realtà israeliana a creare un’integrazione tra lo spirituale e il materiale, come indicato da Bialik.

Per gli ebrei, che per la maggior parte della loro storia hanno indossato e smesso abiti nazionali di altri, il processo di trasformazione dell’identità israeliana da indumento in una nuova pelle, è qualcosa di nuovo e di rivoluzionario. Siamo solo all’inizio della lotta per un posto dell’identità israeliana nella nostra vita. L’ondata di ebraismo religioso di cui siamo testimoni non fa che ostacolarne e minarne la stabilizzazione e l’approfondimento.

Io credo che ex israeliani ed ebrei odierni popoleranno anche le colonie spaziali che sorgeranno fra pochi decenni. E forse anche lassù gli inviati di Chabad (movimento religioso ebraico N.d.T.) li aiuteranno a mantenere un minimo di identità ebraica come fanno ora in tutto il mondo. Da lassù, dalle colonie spaziali, diranno probabilmente «L’anno prossimo a Gerusalemme». E la domanda angosciante sarà: Gerusalemme sarà allora un concetto astratto, come lo è stata per centinaia di anni di storia ebraica, o una realtà viva? Questo non dipenderà dall’identità ebraica, ma unicamente da quella israeliana.
[Trad. Alessandra Shomroni]

Per inviare la propria opinione alla Stampa, telefonare 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT