XV Edizione del Premio letterario ADEI-WIZO Adelina Della Pergola
Commenti di Giorgia Greco
Fra le tante proposte editoriali pervenute dalle Case editrici nel corso del 2014 e nei primi mesi del 2015, la Giuria composta da donne del mondo della cultura ha selezionato per la XV edizione del premio letterario Adei-Wizo tre opere molto interessanti: Frédéric smarrito fra i suoni di Denis Lachaud (66THAND2ND), un romanzo di formazione che racconta la vita di un adolescente sradicato e disorientato che all’apprendimento della lingua ebraica affianca la ricerca della propria identità; Forse Esther di Katja Petrowskaja (Adelphi), una commovente ricerca delle radici che, attraversando il Novecento rivisita i luoghi dell’Europa orientale ricostruendo vissuti familiari mantenuti sotto traccia ai tempi dell’Urss e tornati allo scoperto con il crollo del sistema sovietico; Mi chiamavano piccolo fallimento di Gary Shteyngart, un’ironica e commovente autobiografia che ripercorre un tema piuttosto frequentato nella letteratura ebraica, quello dell’emigrazione dall’Urss negli Stati Uniti o in Israele.
Nella stessa occasione la Giuria selezionatrice ha indicato i due volumi che si contenderanno il Premio Ragazzi e verranno valutati da studenti provenienti da quindici scuole superiori, sparse su tutto il territorio nazionale: La tentazione del rabbino Fix di Jacquot Grunewald, Giuntina (recensito in queste pagine) e Il braccialetto di Lia Levi, e/o.
Per chi volesse approfondire la trama e i contenuti dei romanzi selezionati che verranno sottoposti al giudizio della Giuria popolare di appassionate lettrici che ne decreterà il vincitore (la Premiazione sarà a Roma nel mese di ottobre), vi proponiamo le recensioni dei libri.
Forse Esther
Katja Petrowskaja
Traduzione di Ada Vigliani
Adelphi euro 18,00
Con una penna venata d’intelligente ironia l’autrice ucraina di origini ebraiche Katja Petrowskaja ci conduce alla riscoperta delle radici della sua famiglia, attraverso i drammi concatenati del Novecento. Forse Esther, vincitore nel 2013 del prestigioso premio Ingeborg Bachmann, è una storia che risorge dal passato, sfidando l’oblio del tempo, per far rivivere quell’intreccio inestricabile di culture e di lingue, yiddish, polacco, ebraico, russo, tedesco di una famiglia dispersa fra Polonia, Russia e Austria, attraverso un viaggio emozionante che l’autrice compie alla ricerca dei parenti comparsi.
Ripercorrendo a ritroso la storia del Novecento, Petrowskaja conduce il lettore attraverso tasselli mancanti, assenze, vicende di dolore e di paura alla scoperta di figure di famiglia commoventi: la nonna Esther della quale però non è nemmeno sicura del nome, la logopedista di Varsavia che salva duecento bambini sopravvissuti all’assedio di Leningrado, il nonno ucraino prigioniero di guerra a Mathausen e ricomparso da un gulag dopo decenni, il prozio Judas Stern che, nella Mosca del 1932, spara a un diplomatico tedesco. Indimenticabili protagonisti di questo romanzo autobiografico che scruta nei destini sepolti dalla Storia non sono solo le persone di cui l’autrice coglie con mirabile sensibilità le pieghe più riposte dell’anima, ma anche i paesaggi con l’ampia pianura russa invasa dai tedeschi e le città della vecchia Europa: Kiev, Varsavia, Mosca, Berlino.
Petrowskaja entra in punta di piedi nei Gulag, nei ghetti, nei Lager strappandoci ora un sorriso ora un moto di profonda empatia nei confronti di quegli uomini e quelle donne travolti dai flutti della Storia. Arricchita da suggestive immagini di parenti e luoghi geografici l’opera di Petrowskaja, scritta direttamente in tedesco e paragonata per la prosa evocativa al capolavoro di Sebald, Austerliz, è un libro vibrante, pervaso di lieve ironia che si legge con rispetto e dedizione, la testimonianza tangibile di un mondo scomparso che risorge vivido e ancora oggi attuale.
Frédéric smarrito tra i suoni
Denis Lachaud
Traduzione di Sergio Claudio Perroni
66thand2nd euro 16
Tutti ci ricordiamo di quanto sia difficile essere adolescenti. Un’epoca della vita piena di contraddizioni, refrattaria al compromesso e dove l’inquietudine e la vulnerabilità dell’anima si nascondono dietro un atteggiamento irritante al limite della strafottenza specie nei confronti dei genitori e dei fratelli più piccoli. Non fa eccezione Frédéric Quenoz, un giovane di 17 anni che si è appena trasferito a Tel Aviv con la sua famiglia: la mamma Mathilde, detta Francia, il papà Paul detto Svizzera, la sorellina Morgane e il fratello più piccolo César, irrequieto e capriccioso, come tutti i fratelli minori! Frédéric è l’indimenticabile protagonista dell’ultimo romanzo di Denis Lachaud, pubblicato in Francia nel 2011 col titolo “J’apprends l’Hébreu” che arriva in Italia nella bella versione di Sergio Claudio Perroni con la casa editrice 66thand2nd.
Ben si attaglia il titolo italiano alla personalità di Frédéric, un adolescente ipersensibile, un po’spaesato, costretto ancora una volta a cambiare paese per seguire il lavoro del padre impiegato in una banca che lo manda in giro per il mondo; dopo essere nato a Parigi e aver traslocato prima a Oslo poi a Berlino, Frédéric approda nella Terra Promessa, in una città costruita sulla sabbia cha aggiunge preoccupazione al suo inevitabile disorientamento “Io non ho mai vissuto sulla sabbia. Non so come si fa a vivere sulla sabbia. Non so come contrastare una simile fragilità di contesto, una simile permeabilità”. Eppure Tel Aviv e i suoi abitanti gli piacciono come pure l’ebraico che si impegna ad imparare da solo, non come i turisti in modo approssimativo. E proprio perché è una lingua “strana” che si legge da destra a sinistra, al contrario delle lingue che sinora ha studiato, l’ebraico lo fa sentire meno diverso dal mondo che lo circonda “… E’ possibile che se le parole si presentano nell’altro senso io riesca a vivere con la pienezza cui tutti hanno diritto. Ne ho una gran voglia”.
Perché il diciassettenne Frédéric è davvero “smarrito nei suoni” e nella vita come se per lui fosse difficile individuare un punto fermo cui appigliarsi. Sente di non avere radici e il suo essere un amalgama di lingue e origine diverse (la mamma francese e il padre svizzero) gli fa “perdere la bussola” in una quotidianità a volte troppo destabilizzante. Mentre i fratelli si muovono sicuri nel mondo che li circonda, Frédéric, preoccupato per l’assedio sonoro di una lingua sconosciuta, si procura un dittafono, uno strumento utile per decifrare quello che gli altri dicono consentendogli di ascoltare e riascoltare le conversazioni e dunque un artiglio sicuro, dal quale non si separa mai, per orientarsi nel nuovo Paese….”ho comprato il dittafono che mi permette di trasformare le parole dette in parole scritte, la penombra orale in luminosità su carta”.
Cercare di ambientarsi in Israele è un’impresa avventurosa che porta Frédéric a conoscere persone nuove - come la signora Lev del piano di sopra con la quale parla in tedesco o la famiglia Masri “costretta a lasciare l’Egitto negli anni Cinquanta” con cui parla in francese e che fra torte al cioccolato o di ricotta lo avvicinano alla nuova realtà israeliana – ma anche a fare incontri affascinanti e ad affrontare situazioni imprevedibili e lunghe notti insonni per il caldo. Il giovane Quenoz si interroga su tutto, osserva tutto, registra qualsiasi conversazione senta in famiglia o per la strada e non ama uscire dal suo “territorio”. Ha però un amico immaginario che lo protegge e col quale dialoga regolarmente: ”Benjamin si chiama Benjamin Ze’ev Herzl… per il resto del mondo è Théodor Herzl”. E’ il fondatore del sionismo che accompagna il giovane Frédéric alla scoperta della città evitandogli guai e sottraendolo a eventi pericolosi. “Imparare una lingua mi ha sempre permesso di scoprire come devo guardare il mondo in cui vivo”, ragiona Frédéric e in effetti l’apprendimento di una lingua diventa un modo per costruirsi una propria identità e prendere una direzione che illumini il suo difficile cammino verso l’età adulta.
Lachaud indaga con vera maestria i rapporti familiari che legano i Quenoz l’uno all’altro narrandoli non solo dalla prospettiva di Frédéric. Con riflessioni argute conosciamo i pensieri di papà Paul, le preoccupazioni di Mathilde sul comportamento del figlio adolescente, le intemperanze di César che segue il fratello maggiore con una macchina fotografica per immortalare le sue stravaganze e metterne a parte la madre. Tuttavia anche per Frédéric il rapporto con César è inquieto e non incline all’affabilità “..mio fratello dallo sguardo impenetrabile, mio fratello che mi tiene ai margini da sempre, da quando è sbarcato dalla maternità e mi ha individuato in cima alla scala dei fratelli”.
Attraverso la figura di Frédéric, Denis Lachaud ci introduce con garbo e sensibilità nei meandri di una personalità disturbata ma che affascina e cattura il lettore sin dalle prime pagine. Emergono così le problematiche che caratterizzano la vita degli adolescenti, il difficile rapporto con i genitori e la necessità di tenere aperta in ogni momento una via di comunicazione con i giovani per impedir loro di smarrirsi nel mondo, allontanandosi anche dalla famiglia per paura o senso di inadeguatezza (“…Lei (la madre) vive nella frase pronunciata, io vivo nella frase silenziosa. Si capisce chiaramente che la comunicazione necessita di uno sforzo, mi dico”). Denis Lachaud, regista drammaturgo e attore, che ha esordito nella narrativa nel 1998 con “Imparo il tedesco” pubblicato da 66than2nd nel 2013, affronta in questo romanzo di formazione, con un linguaggio ritmato e travolgente, tematiche attuali e delicate ponendo a confronto il fragile equilibrio di Frédéric con quello di Israele, una terra dalle molteplici contraddizioni e con qualche fragilità.
Mi chiamavano piccolo fallimento
Gary Shteyngart
Traduzione Katia Bagnoli
Guanda euro 18
Segnalato dal New Yorker come uno dei migliori autori americani under 40, Gary Shteyngart è lo scrittore che ci ha fatto divertire come pochi altri narrando le disavventure moderne degli immigrati russi in Europa e in America. Il suo ultimo libro, “Mi chiamavano piccolo fallimento” pubblicato da Guanda, è una brillante e commovente autobiografia pervasa da un’acuta ironia e uno straordinario senso dell’umorismo che svela il percorso compiuto da Igor/Gary dalla Russia agli Stati Uniti dove emigra con la famiglia nel 1979.
Con una narrazione divertente l’autore costruisce il libro attorno alla storia del piccolo Igor alle prese con una realtà che lo rifiuta e nella quale si trova a confrontarsi con una lingua diversa, con compagni di scuola che lo deridono, con tante delusioni e a vivere con un perenne senso di fallimento che gli toglie quella determinazione che sembra caratterizzare invece la figura paterna.
Considerato un “piccolo fallimento” dalla madre che avrebbe voluto vedere il figlio laureato in medicina o in legge, quasi un riscatto ai loro sacrifici, Gary intraprende la strada della scrittura per parlare di sé, della sua famiglia e del popolo russo mettendone in luce le mille contraddizioni.
Dopo un incipit iperbolico con il racconto di un attacco di panico a New York, l’autore ripercorre a ritroso le tappe della sua vita che da Leningrado lo hanno portato ai newyorkesi Queens passando per Vienna e Roma, primo assaggio del technicolor occidentale dopo il grigiore sovietico. L’incontro con la civiltà americana della quale non si può non apprezzare lo spray magico che lo solleva da un’asma fastidiosa, è raccontato in pagine ironiche pervase da battute esilaranti scaturite anche dall’incomprensione linguistica. In quegli anni la satira diventa un mezzo per sopravvivere nella giungla scolastica americana nella quale Gary piano piano comincia a muoversi affascinando il lettore con un’autoironia disarmante. L’incontro con la cultura ebraica diventa una parte importante nella vita della famiglia Shteyngart.
Muovendosi fra passato e presente con vero talento narrativo l’autore ha scritto un’autobiografia struggente in cui fissando sulla carta la sua storia familiare più intima rende omaggio ai genitori ormai anziani di cui con accenti malinconici teme la perdita e porge un saluto nostalgico al suo passato di ebreo russo. Ricco di spunti di riflessioni e di situazioni emozionanti oltre che divertenti, il memoir di Shteyngart è una brillante prova di scrittura che non si dimentica.
Giorgia Greco