Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 14/03/2015, a pag.1/16, con il titolo " Il sogno infranto della Siria ", il commento di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Assad in una caricatura
Della Siria di quattro anni fa non riesco a ricordare altro. Volti oscuri. Una piccola piazza affollata nei quartieri liberati di Aleppo. Bambini che cantano in coro, stonando, un motivo rivoluzionario che parla di dignità. L’oratore,unragazzo con appena un filo di barba, issato su un palco improvvisato che stramaledice il dittatore Bashar. Le luci sono accese, perfino un faro illumina la piazza. Perché non le spengono? Ci sono gli elicotteri che bombardano, i mortai: non ha paura questa gente? Facciate monotone, sporche, qua e là animate da luci accese, da biancheria appesa alle finestre e da una popolazione di coppie sui balconi: città aerea, Aleppo notturna, ove il perpendicolo deimuri non evoca le pareti di un pozzo sporco, come di giorno, quanto una straordinaria, elevata falesia. Altri bambini corrono dietro la folla, folate di aromi, fitte colonne di fumo. I miei ricordi della Aleppo rivoluzionaria diventano, in questo anniversario così scomodo e duro, minuscole, remote immagini viste attraverso un telescopio capovolto, sempre più piccole e più lontane, finché non dileguano del tutto. Dio, tutto questo è successo da tanto di quel tempo. Speranza dei condannati .Mangio olive scure seduto su un marciapiede, un negoziante accorre premuroso sorridente con una sedia: c’erano ancora negozi e mercati nella Siria di allora. Eppure la guerra era a 500 metri da lì, in fondo a un incrocio, con i cecchini, i mortai, gli agguati. Quante esperienze deve vivere un uomo prima di morire? Lo sapevo, guardando passare giovani coppie, lui un po’ rigido nella sua approssimativa divisa di combattente, lei con il velo sul capo ma il bel volto scoperto, aggrappata al braccio del suo uomo, orgogliosa e modesta. Sapevo che era gente condannata, dalla vendetta del Tiranno: senza nome, coloro che fuggono, vinti, l’estremo limite, il termine della notte. Ma in quelle sere tutto quel piccolo mondo mi pareva libero e quasi felice. Serata paesana, giochi infantili e canzoni, speranze… Dicevo tra me che forse si poteva vivere lì. Non come braccati, scacciati, senza speranze e senza poesia. Viverci per annunciare una buona novella, la rivoluzione, a coloro che l’attendono per vivere. Potevi chiedere un passaggio a qualcuno che non conoscevi, allora, nella Siria liberata: voglio andare dove si combatte, dai...mi porti? E non avevi paura, nemmeno pensavi che tutto poteva finire in un sequestro. Salivi sulle ambulanze, senza chiedere dove andavano: Sali, straniero... e si sfrecciava via con la sirena accesa come da noi, in qualsiasi città. E c’erano la guerra e gli aerei. Il ferito moriva, accanto a te. La sirena si spegnava: scendi, è inutile, torniamo indietro noi. Restavi sul bordo della strada, senza preoccuparti: qualcuno sarebbe passato, un pick up di ragazzi armati o chi tornava a casa da Aleppo. Era la Siria rivoluzionaria, libera, come la volevamo. Accecati So che molti, oggi, dicono che eravamo ciechi, accecati dal manicheismo politico che ci fa dividere in buoni e cattivi, come nei western. Già, il grande male della diplomazia e del giornalismo di oggi, il «wishful thinking», prendere i desideri per realtà: i giovani democratici contro i vecchi autocrati. E invece gli Assassini erano già lì, mal camuffati, pronti a gridare la loro ammirazione per bin Laden, a sgozzare i venditori di strada perché mancano di rispetto al Profeta e a sequestrare operatori umanitari e giornalisti per immolarli o venderli.
Non era così. Far sentire che tutto questo è stato parte di me, tutto ciò attraverso cui sono passato era costruzione, speranza, rinnovamento nel dolore e rivoluzione: ecco quel che devo far sentire. No, quattro anni fa non c’erano lugubri assassini, terroristi califfali, fascisti teocratici.
Quei ricordi mi appaiono di colpo nitidi alle spalle come la strada che si dipana dietro il finestrino posteriore di un’automobile.
Allora: dove abbiamo sbagliato? Dove hanno sbagliato? Sento l’infelicità dilagarmi dentro. Un altro luogo. Sono passati appena due anni, una città dell’Est dove il Califfato fa le sue prime prove. Non ci sono bimbi o donne, le botteghe sono sventrate, le case scavate dalle bombe denti guasti.Camminiamo lentamente lungo quella che un tempo era una strada. La notte è recinta da rovine putrefatte e dietro paiono estendersi grandi terreni incolti come sono da noi dove credono che si costruirà una strada, e poi, dopo aver trafficato con pertiche e misurazioni, non se ne fa niente. E allora ci buttano i rifiuti, cenere e spazzatura, l’erba torna a crescere gagliarda e selvaggia. Ma qui prima erano quartieri e case. Sento sparare l’artiglieria, per il resto c’è quasi calma. Solo di tanto in tanto senti rugliare le fiamme e da qualche parte precipita un balcone, un torso di facciata. L’artiglieria spara tranquilla e regolare. Lo so, è una bassezza assurda ma io pensavo: come è riposante questa artiglieria, mette quasi a proprio agio. Scabra e cupa, quasi un dolce aereo suono di organo. Sa proprio di guerra come è raffigurata nei libri. Gli occhi stanchi .Dal buio emergono giovani vestiti di nero: non sono più imiei eroi di Aleppo. Giovani anche loro,ma la stanchezza incombe su tutti, le facce sono ingiallite e le palpebre arrossate, a furia di vegliare e battersi, le facce di tutti sembrano quelle di chi ha pianto. Il gruppo, la katiba del jihad, si arena in un pozza tra le rovine dove le bombe, sotto la crosta del suolo irto di radici tranciate di ferro, ha portato alla luce uno strato di pietre e di cemento sminuzzato. Con loro sembra arrivare il rumore, un guazzabuglio di cigolii meccanici, voci, alterchi, ordini che si incrociano, e soprattutto il boato oceanico delle esplosioni. Per terra c’è qualcosa. È una fila di morti, mentre passiamo istintivamente il piede li evita e l’occhio ne è attratto. Al di sopra di quel confuso ammasso nero si scorgono suole di scarponi in verticale, prominenze di volti ormai irriconoscibili,mani che artigliano l’aria. Nel cielo sempre più buio come se si fosse sporcato dopo anni di vicinanza a quella immane e miserabile moltitudine umana, si alza la preghiera dei martiri che hanno avuto «la migliore di tutte le morti». Il giovane emiro mi incalza: «Noi siamo gli annunciatori del Giudizio, il giorno della religione, “yum al-din”’, indicato nella prima sura. La giustizia di dio sta presto per compiersi, avremo il conto di quanto abbiamo fatto, registrato nel libretto di ognuno di noi dagli angeli.Guai ai kufar, gli infedeli i dissimulatori… Al sham, la Siria, è il luogo della fine dei tempi e della vittoria dell’islam su Satana…». Ecco non c’è paura nella voce dei combattenti del jihad totalitario che ha riempito il vuoto di quella rivoluzione. I combattenti dell’Armata siriana libera avevano paura, di morire di essere catturati di restare mutilati e invalidi. C’era tutto nel grembo della loro terra martoriata: la casa in cui erano nati, i boschi di ulivi dove si smarrivano, i personaggi delle loro fiabe, il paese dove avevano, pochi, fatto fortuna e quasi tutti l’avevano sciupata. La donna che avevano cominciato ad amare, la notte, il giorno, le stagioni, il focolare, la guerra e i sogni, le cose che ricordavano e quelle che avevano dimenticate. E infine, soprattutto, la morte, così terribile che non abbiamo odio misurabile per lei, le opponevano solo un disperato oblio. Gli uomini del jihad assassino sono, purtroppo, uomini nuovi: un’altra specie umana sciamata qui da mezzo mondo per combattere e uccidere. Non hanno una biografia e un passato: famiglia studi casa lavoro amori... questo macello, il califfato, il Leviatano totalitario, da costruire è la loro insanguinata infanzia. Quattro anni dopo il califfato è lì, eversore di frontiere ormai scomparse, popoli interi sono fuggiti, Stati che noi abbiamo inventato sono scivolati nella Storia e non ritorneranno. In Occidente soltanto e ovunque confusione, dispersione, indifferenza, una inerzia velleitaria o buoni propositi soffocati da chiacchieroni. La grande corrente ideale che dava un senso ai nostri gesti è tagliata, restano solo abitudini e liti per denaro. Ci affidiamo agli sciiti e a un generale iraniano, gli agguerriti boia degli ayatollah, per riguadagnare qualche chilometro. Affettata, gracilina, tutta agghindata di piccole astuzie e ipocrisie, avanza la riconoscenza per l’insanguinato dittatore superstite. Senza pensare che in questo modo le grandi tribù sunnite d’Iraq, al Djuburi, sei milioni di persone che avevano lottato contro Al Qaeda, gli Shammar, tremilioni riuniti attorno a Mosul che guidati dai loro sceicchi hanno fatto alleanza opportunistica con il califfato in nome del nazionalismo sunnita, saranno obbligate a battersi fino all’ultimo respiro al suo fianco: per odio e per sopravvivere. La guerra diventa eterna.
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