Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/03/2015, a pag. 53, con il titolo "Gli ebrei in Europa e lo Stato d'Israele", la risposta di Sergio Romano alla lettera di Jost Reinhold.
Sergio Romano riconferma la sua ostilità verso Israele, interpretando a modo suo la storia, non solo del Medio Oriente, ma anche le motivazioni che dovrebbero giustificare il terrorismo islamico.
Esordisce discretamente ma prosegue in modo pessimo. Non può fare a meno di constatare come l'antisemitismo più diffuso oggi in Europa sia quello di matrice islamica, ma quello che segue nell'articolo è degno solo di essere criticato.
Romano ritiene che le scelte militari "spregiudicate" di Israele siano ciò che ha alienato i consensi di cui lo Stato ebraico godeva in passato tra le nazioni democratiche. Ammesso e non concesso che nei paesi democratici in passato davvero Israele fosse ritenuto più simpatico, Romano fa i conti senza l'oste: l'antisemitismo. E in particolare non considera come questo sia in crescita sul Vecchio Continente anche e soprattutto come conseguenza della presenza sempre più cospicua di musulmani.
La domanda finale di Romano è ridicola: il fatto che la maggior parte dei Paesi del mondo abbiano "riconosciuto" la Palestina è solo un indice in più che mostra come la maggior parte dei Paesi del mondo siano democrazie scadute.
Ecco la lettera e la risposta di Romano:
L'antisemitismo nazista è riportato in vita dall'islamismo
Sergio Romano
Tutti i giornali parlano più o meno tutti i giorni del preoccupante diffondersi in Europa di ogni forma di antisemitismo. Purtroppo non ho mai letto in questo contesto un’analisi del fenomeno. Lei, che ha tante volte commentato questioni ebraiche, potrebbe dare una risposta alla domanda del perché? Tutte le fonti ebraiche denunciano giustamente i fatti, ma difficilmente ho letto un suggerimento o una proposta su come anche la parte ebraica potrebbe contribuire a combattere questa piaga. Non mi sembra più che il «non dimenticare» possa essere l’unica soluzione.
Jost Reinhold
jreinhold@rhifim.it
Caro Reinhold,
Esistono forme di ostilità contro gli ebrei nei Paesi in cui importanti comunità musulmane convivono con una forte comunità ebraica. Il caso più vistoso è quello della Francia, un Paese che ospita contemporaneamente poco meno di cinque milioni di musulmani e poco meno di 500.000 ebrei. Il sentimento antiebraico in questo caso è strettamente legato sia all’esistenza della questione palestinese sia a quei sentimenti di nazionalismo frustrato e disagio psicologico che si manifestano nelle minoranze etniche soprattutto durante fasi economicamente difficili.
L’identificazione fra Israele e gli ebrei delle diaspore europee è arbitrario e discutibile, ma è quello a cui maggiormente ricorre chiunque approfitti di questo malessere per cercare di reclutare militanti jihadisti. Ed è giustificato, agli occhi dell’Islam radicale, dagli appelli di Benjamin Netanyahu agli ebrei francesi. Se il premier israeliano, dopo gli omicidi del supermercato kosher a Parigi nelle scorse settimane, li considera potenziali cittadini di Israele, perché non dovrebbero essere considerati tali anche dai francesi di religione musulmana?
Vi sono forme di ostilità antiebraica anche là dove esistono rigurgiti neonazisti. Ma il fenomeno, in questo caso, mi sembra meno rilevante. Le simpatie naziste sono una patologia europea da sorvegliare e sradicare, ma non mi sembrano statisticamente preoccupanti.
Esiste poi un terzo fattore, forse più inquietante. In questi ultimi anni Israele sta progressivamente perdendo il capitale di affetto e simpatia di cui ha lungamente goduto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Per i socialisti europei il kibbutz era un modello da imitare anche sotto altre latitudini. Per chi aveva ancora negli occhi le immagini dei forni crematori, la nascita dello Stato ebraico era la dimostrazione di una entusiasmante vitalità nazional-religiosa. Persino operazioni militari spregiudicate, come la guerra del 1956 e quella del 1967, suscitavano ammirazione per l’audacia delle forze armate israeliane.
Oggi quei sentimenti si sono in buona parte dissolti. La politica degli insediamenti, mai interrotta, le guerre di Gaza, il fallimento di tutti i tentativi promossi dalla diplomazia americana per la soluzione della questione palestinese, la scarsa collaborazione offerta dal governo israeliano alla politica dei due Stati hanno creato delusioni anche in coloro che avevano accompagnato con le loro speranze l’evoluzione dello Stato israeliano nei primi decenni della sua esistenza. Come spiegare altrimenti il fatto che 135 Stati su 193 membri dell’Onu, abbiano riconosciuto la Palestina?
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