Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/02/2015, a pag. 1-31, con il titolo "E ora l'Iran diventa (quasi) un alleato", il commento di Roberto Toscano; dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, con il titolo"Usa-Iran, ipotesi di congelamento del nucleare", l'analisi di Massimo Gaggi.
Ecco gli articoli:
Iran: la forma... delle cose... future
LA STAMPA - Roberto Toscano: "E ora l'Iran diventa (quasi) un alleato"
L'articolo di Roberto Toscano è un inno al sanguinario regime degli ayatollah che domina l'Iran, cerca di espandersi nel mondo musulmano e minaccia di morte e distruzione Israele un giorno sì e l'altro pure.
Secondo Toscano l'attenzione rivolta all'Iran sarebbe spropositata. Ci sono nuclei conflittuali che l'ex ambasciatore considera più importanti, tra cui anche la crisi israelo-palestinese. Purtroppo per lui, è vero esattamente il contrario: l'Iran, un Paese dall'enorme peso specifico, è la minaccia primaria per un Medio Oriente che già è in fiamme. Immaginare un simile Paese, governato da un clero islamico estremista, dotato di armi nucleari, è un incubo che non vorremmo dover fronteggiare.
Riprendiamo un passo della Cartolina di oggi di Ugo Volli a questo proposito:
"Ma scusate, se [l'Iran] non vuole l'atomica, perché si batte per avere migliaia di centrifughe che non servono ad altro? L'Italia, per esempio, o la Germania hanno un'industria avanzata e non hanno mai chiesto di istallare migliaia di centrifughe per arricchire l'uranio" (leggete la Cartolina di Ugo Volli alla pagina http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=57332).
PS: Qualcuno dica a Toscano che la capitale di Israele è Gerusalemme, non Tel Aviv come lui scrive. Invitiamo i lettori a scrivere al direttore della Stampa, protestando contro un articolo a tesi più consono a giornali come il Manifesto, che fanno della bassa propaganda contro Israele una bandiera.
Ecco l'articolo:
Roberto Toscano
Per oltre dieci anni la questione nucleare iraniana ha occupato una delle posizioni centrali fra i dossier di politica internazionale, come se principalmente da essa dipendessero l’alternativa fra pace e guerra in Medio Oriente e gli stessi equilibri internazionali.
Anche in passato era legittimo ritenere che si trattasse di un difetto di prospettiva, o piuttosto delle distorsioni volutamente prodotte da chi preferiva spostare sul nucleare iraniano un’attenzione che altrimenti si sarebbe focalizzata su tematiche quali la questione palestinese o il ruolo degli Stati del Golfo nel sostegno dei più radicali e violenti movimenti jihadisti.
Oggi appare ormai evidente che la questione, che pure rimane importante sotto il profilo del pericolo della proliferazione nucleare, risulta sostanzialmente sdrammatizzata, se non ridimensionata.
Secondo le ultime notizie da Ginevra, il negoziato nucleare rimane ancora complesso, con molti problemi da risolvere, ma per la prima volta non sembra da escludere la possibilità che emerga un compromesso accettabile da ambo le parti.
Un segnale interessante al riguardo è che si è unito al team negoziale iraniano il Direttore dell’ente nucleare iraniano, ed ex ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, la persona in assoluto più competente sia dal punto di vista scientifico (ha un dottorato in fisica di Mit) sia da quello della storia del negoziato, essendo stato rappresentante iraniano all’Aiea.
Ma quello che è cambiato è soprattutto l’irrompere della sfida del cosiddetto Stato Islamico, la più recente e più minacciosa incarnazione del radicalismo wahabita. Si tratta di una sfida che da un lato minaccia la stessa tenuta dello Stato iracheno e dall’altro apre inquietanti prospettive per la Siria, dove appare molto problematico immaginare l’eliminazione di un altro dittatore laico, Assad, senza che - come in Iraq e in Libia - si apra la via a un processo di decomposizione istituzionale e territoriale di cui beneficerebbero le forze islamiste più estreme.
Che fermare lo Stato Islamico sia un’urgenza lo dimostra il fatto che il Presidente Obama ha deciso di chiedere al Congresso un’autorizzazione all’uso della forza militare. Cercando di sottrarsi all’accusa di avere così invertito la sua precedente politica, quella di ritirarsi dalle «guerre stupide» di George W. Bush, Obama ha farcito la sua richiesta di precisazioni sul tipo di forze e sui limiti temporali, ma è inevitabile a questo punto prevedere che presto vedremo arrivare in Iraq quegli «stivali sul terreno» che non solo Obama, ma l’opinione pubblica americana, non avrebbero voluto più vedere. E non si tratta solo degli Stati Uniti: la missione esplicitamente anti-Isis della portaerei francese «Charles de Gaulle» costituisce un altro segnale di notevole significato politico ancor prima che militare.
Per gli americani il rischio, come sempre quando si prospetta un uso limitato della forza armata, è che la situazione possa precipitare mettendo a repentaglio le limitate forze schierate in origine e costringendo quindi a un’inevitabile escalation. E’ qui che l’Iran può essere visto come una soluzione, e non solo come un problema. In realtà è in parte già così, visto che Washington e Teheran stanno indirettamente coordinandosi, per interposto governo iracheno, nella lotta allo Stato Islamico. Un paradosso che lascia non pochi sconcertati e sospettosi, soprattutto a Tel Aviv e a Riad, ma che non è certo una novità dal punto di vista storico, soprattutto in una regione come il Medio Oriente, dove il nemico del nemico non è necessariamente un amico, ma può diventare un indispensabile alleato di fatto.
Se per gli Stati Uniti si tratta di ridurre i danni dei ripetuti errori politici e strategici e fermare la destabilizzazione e il caos politico a livello regionale, gli obiettivi dell’Iran sono abbastanza evidenti. Si tratta in primo luogo di garantire che l’Iraq non torni ad essere una minaccia come ai tempi di Saddam: questo spiega perché dal momento della caduta di Saddam il governo di Baghdad sia stato sostenuto sia da Washington sia da Teheran. Collaborare con gli americani contro lo Stato Islamico non è quindi per gli iraniani né un problema né una novità.
Ma fra gli obiettivi iraniani vi è qualcosa di più sostanziale e di più ambizioso: il progetto di ottenere dagli Stati Uniti, anche a costo di accettare di pagare alcuni prezzi, una sorta di «sdoganamento» come potenza regionale, e soprattutto la caduta di un bruciante status di Paese reietto e paria, sistematicamente escluso ed isolato internazionalmente. Si tratta di un obiettivo condiviso dalla stragrande maggioranza degli iraniani, seppure con diverse sfumature, e respinto solo da una minoranza peraltro - e vi è qui un elemento d’incertezza - solidamente impiantata nei gangli vitali del potere.
Per capire quale sia questo vero e proprio «progetto nazionale» vale la pena rileggere il testo della proposta che, con l’autorizzazione dei vertici del regime (erano i tempi del governo riformista di Khatami), un ristretto gruppo di diplomatici iraniani redasse nel 2003 e inoltrò al governo americano, che rifiutò ostentatamente di prenderla in considerazione - anzi, persino di riceverla.
Punti importanti di quella proposta erano la richiesta iraniana di discutere «un riconoscimento dei legittimi interessi di sicurezza iraniani nella regione», e la possibilità di una dichiarazione americana secondo cui «l’Iran non appartiene all’asse del Male». In cambio si offriva fra le altre cose di prendere in considerazione «il coordinamento dell’influenza iraniana» in Iraq. Interessanti erano anche la disponibilità a discutere, per la Palestina, «l’accettazione della Dichiarazione di Beirut della Lega Araba (iniziativa di pace saudita, approccio dei due Stati)» e l’ipotesi di «un’azione su Hezbollah perché diventi una semplice organizzazione politica all’interno del Libano».
Forse dodici anni dopo Washington potrebbe rispondere a quella proposta. Ma certo non potrà farlo se non verrà superato l’ostacolo della questione nucleare.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi: "Usa-Iran, ipotesi di congelamento del nucleare"
Massimo Gaggi
L’allievo e il professore. Si è visto anche questo nell’interminabile negoziato Usa-Iran sul programma nucleare di Teheran: i ministri degli Esteri dei due Paesi, Kerry e Zarif, sono stati affiancati dal capo dell’Agenzia atomica iraniana Ali Akbar Salehi, un ex studente del Mit di Boston, e dal ministro dell’Energia Usa, Ernest Moniz, che è stato suo docente. Vecchi conoscenti, ma non un clima da rimpatriata: Salehi rappresenta l’ala dura di Teheran contraria alle concessioni negoziate da Zarif, accusato di accettare un compromesso che inchioderebbe l’Iran sul nucleare per più di una generazione. Salehi vuole poter produrre uranio arricchito già nel 2021 quando scadrà il contratto di fornitura dalla Russia. Come uscirne? Per evitare che gli ayatollah leghino le mani ai negoziatori, Washington si prepara ad accettare un accordo meno ambizioso in termini di durata. Teheran si impegna a restare in una condizione tale da richiedere almeno un anno di tempo per produrre una bomba atomica, qualora decidesse di rompere l’accordo. La cui durata, però, non sarà di 20 anni come chiedeva Obama ma di 10 (o quindici ma con l’Iran che può ricominciare a costruire centrifughe per arricchire l’uranio negli ultimi 5 anni). Si riuscirà ad arrivare a un accordo nei tempi stabiliti (intesa di massima a fine marzo e formale a giugno)? E come verrà accolta? Il negoziato è complesso, i nodi molti: soprattutto l’accettazione da parte di Teheran di ispezioni severissime. Considerate indispensabili anche dall’Agenzia atomica internazionale che accusa l’Iran di non aver dato risposte adeguate alle sue richieste. Il negoziato riprenderà lunedì prossimo proprio mentre il premier israeliano Netanyahu, avversario di un accordo che considera un paravento per le mire nucleari iraniane, parlerà davanti al Congresso ma non vedrà Obama, col quale tira aria di rottura. Incalzato dai duri, il presidente Rouhani ha pochi margini di manovra, ma anche la Casa Bianca che deve vedersela con un Congresso in maggioranza ostile all’accordo e che ieri ha cercato di ridimensionare la portata delle anticipazioni. Che non sarà un trattato: non richiederà un voto parlamentare.
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