Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, a pag. 18-19, con il titolo "Quei 58 fomentatori d'odio nelle nostre celle: 'Lodano la jihad e cercano di fare proseliti' ", l'analisi di giuliano Foschini, Fabio Tonacci.
Guliano Foschini Fabio Tonacci
L'eco del massacro di Charlie Hebdo è rimbalzato nelle celle italiane quando ancora i due fratelli Kouachi erano in fuga nelle campagne francesi. In quel momento, e nei giorni immediatamente successivi, ci sono stati 20 detenuti che hanno esultato. Hanno inneggiato alla strage di Parigi così come i mafiosi nel 1992 festeggiarono all’Ucciardone la morte di Falcone. Per dirla con il gergo più burocratico dei rapporti della polizia penitenziaria, «hanno solidarizzato e mostrato compiacimento » per gli attentatori di Parigi. Tanto è bastato perché i loro nomi finissero nella lista dei carcerati segnalati all’autorità giudiziaria in quanto «potenziali pericolosi fondamentalisti islamici». Oltre all’elenco stilato dal Viminale dei foreign fighter partiti dal nostro Paese per combattere in Siria e in Iraq, c’è un’altra lista che tiene in apprensione l’Antiterrorismo: quella redatta dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e di cui è stato messo al corrente il ministro della Giustizia Andrea Orlando.
Si tratta di 58 detenuti, finiti dentro per reati vari non necessariamente legati al terrorismo, che hanno mostrato vicinanza all’ideologia del Califfato o di Al Qaeda. Sono quasi tutti extracomunitari provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord, ma tra loro ci sono anche cinque o sei italiani convertiti all’Islam. Fomentatori di odio, in qualche modo. Potrebbero essere degli innocui esaltati così come dei veri reclutatori di jihadisti. Sono persone che attualmente si trovano nel circuito “normale”, quindi a contatto con altri detenuti, non avendo sulle spalle accuse o condanne tanto gravi da meritare il regime di alta sicurezza. Proprio per questo, sono costantemente monitorati dai poliziotti della penitenziaria, i quali temono che tra essi si possa nascondere un altro Djamel. Djamel Beghal è l’uomo di nazionalità algerina, definito “il teorico della jihad”, che aveva la cella accanto a quella di Amedy Coulibaly nel carcere di Fleury-Mérogis. È stato il suo cattivo maestro, colui che l’ha spinto giù, lungo un percorso di radicalizzazione estrema di cui i fatti del 9 gennaio sono stati l’orrendo epilogo.
Anche Omar Abdel Hamid El-Hussein, il 22enne danese autore del doppio agguato a Copenaghen, è diventato un fanatico dentro le mura di un istituto carcerario. «Proprio per evitare questa deriva — spiega Donato Capece, segretario nazionale del sindacato Sappe — i soggetti in quella lista sono stati allontanati dai loro connazionali». Come sono finiti nell’elenco? Non c’è un modo solo. Possono essere stati indicati da qualche pm che ha un’indagine aperta, dai compagni di cella, oppure dagli imam che prestano servizio negli istituti (tutti i religiosi che entrano nelle case circondariali hanno l’autorizzazione del Viminale). Altre volte sono stati gli agenti di guardia ad accorgersi di qualcosa di anomalo, come nel caso dei venti esaltati entusiasti per le gesta dei fratelli Kouachi e di Coulibaly.
Comportamento, questo, che è stato registrato in un paio di car- ceri. «Abbiamo avuto delle disposizioni molto chiare quando si tratta di rischio proselitismo — continua Capece — spesso le indicazioni arrivano dalla stessa comunità islamica carceraria che segnala chi ha le posizioni più integraliste e va professando la guerra santa ». Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia ha chiesto più diritti per i musulmani detenuti. «Oltre che una questione di civiltà — ha detto Orlando — assicurare i centri di preghiera è uno strumento per prevenire la radicalizzazione e il reclutamento fondamentalista ». Si sa che attualmente tra i circa 53mila ospiti totali (di cui 17.452 sono stranieri, per la maggior parte romeni, marocchini, albanesi e tunisini) ci sono dieci condannati in via definitiva per terrorismo di matrice islamica. Il giordano Masalameh Ahmad, ad esempio, è uno di questi. Per lui la fine pena è fissata il 21 marzo 2026. O il tunisino Jarraya Khalil, che esce il prossimo anno. Ma non sono loro a destare preoccupazione, al momento, perché sono tutti in isolamento, seppur non al 41 bis come i mafiosi. In ogni caso non entrano in contatto con gli altri, sono guardati a vista. Diverso il discorso per i 58 detenuti della lista.
«Se notiamo qualcosa di sospetto — continua Capece — riferiamo immediatamente al comandante di reparto perché si possa provvedere al trasferimento». Rispetto alle procedure standard, tutto diventa più rapido. «Ma è evidente che serva una formazione specifica per gli agenti», sostiene però Eugenio Sarno, segretario della Uil penitenziaria. «Il più delle volte si lascia tutto all’intuito e alla capacità del singolo. Per combattere efficacemente il rischio proselitismo bisogna far fare al personale corsi di lingua e dare nozioni almeno basilari sulla cultura islamica in modo da consentire di decriptare alcuni atteggiamenti sospetti. La questione è troppo delicata per lasciare tutto all’improvvisazione».
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