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La Stampa Rassegna Stampa
22.02.2015 Bosnia, dove sventolano le bandiere dello Stato Islamico nel cuore dell'Europa
Analisi di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 22 febbraio 2015
Pagina: 10
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Bosnia, nel villaggio sedotto dall'Isis: 'Tutto il mondo apparterrà all'Islam'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 22/02/2015, a pag. 10-11, con il titolo "Bosnia, nel villaggio sedotto dall'Isis: 'Tutto il mondo apparterrà all'Islam' ", l'analisi di Domenico Quirico.


Domenico Quirico


Il terrorista islamico bosniaco Mirza Ganic

A Sarajevo, ogni volta, ti accorgi che tutte le cose essenziali di questo mondo sono state condizionate dalla guerra o meglio dalle circostanze della guerra: l’usura ha distrutto qualche cosa di più profondo delle semplici parti rinnovabili dell’essere. Ti accorgi subito dello sconvolgimento dell’economia generale, la miseria generale che ti investe con una zaffata di lamentazioni, della politica; ma soprattutto lo scompiglio della vita stessa degli individui, l’imbarazzo, l’incertezza, l’inquietudine universali.

Ritrovi amici anziani che ti parlano ancora di come la vita qui una volta era bella, prima che… E ti sembra sempre più di sentir parlare di mondi interamente scomparsi, di imperi colati a picco con tutti i loro uomini e le loro macchine, scesi nel fondo impenetrabile dei secoli con gli dei e le leggi: la «mirna Bosna», la Bosnia tranquilla alla fine e all’inizio di tutte le conversazioni. Continuano, dopo 20 anni, a scoprire fosse di morti e l’orrore si moltiplica e si prolunga, angosce senza tempo: donne che incontrano, per strada, gli uomini che le hanno violate, e ora non abbassano più il capo o si allontanano, ma ridono e le sfidano a ricordare.

Terreno fertile per la jihad
«È come essere in prigione e sapere che non potrai uscire – mi confida un’amica che lavora in una televisione e vorrebbe partire – qui senti storie che non puoi credere, è una parte piccola di mondo che non puoi capire; dove è davvero difficile vivere». Terreno fertile per il fondamentalismo, raccontano che di qui e in Kosovo passi una delle vie per i combattenti stranieri che porta a Mosul e a Raqqa. Ciò di cui è stata privata questa gente non è soltanto un Paese unito ma è anche il tempo, è anche lo scambio. E questa negazione operata dalla guerra e dalla ideologia nazionalista della «rifondazione», della tribù, dalla invenzione della «tradizione», ha portato alla chiusura ermetica all’interno delle identità e delle differenze. La distruzione della simbiosi bosniaca: la guerra ha fatto il grosso del lavoro, la pace imposta da europei e americani ha fatto il resto. Insistere sulla differenza anche se per predicarne il rispetto l’ha trasformata in limiti invalicabili, in un mostro giuridico che paralizza milioni di persone nella separazione. Un anno fa la gente scese in piazza, bruciò municipi e ministeri, una rivolta della fame, e la rabbia per la paralisi e la corruzione che non conosce etnie. Dopo un anno non è successo nulla, i comitati civici sono spariti o sono stati assorbiti dai partiti. A ricordare sono andate in piazza non più di cento persone.

Come nel califfato
Storie incredibili come quella che mi ha portato qui, questa volta. La storia di una piccola città, Maoca dove hanno alzato alle finestre le bandiere del califfato e dove tutti gli abitanti, uomini, donne, bambini vivono come nelle terre conquistate da Abu Bakr. Le bandiere nere come a Mosul, a Sirte, a Maiduguri dunque già in Europa, a un’ora di volo da Vienna… «Vai a Maoca? – sorride amara la mia amica –. Ma puoi risparmiarti tutta quella strada, là è solo più evidente quello che qui è ancora ipocritamente taciuto. Sai che a Sarajevo non trovi più l’aceto nei supermercati? Sono proprietà di gruppi arabi… nella città multietnica, delle differenze, gli uomini dove lavoro non mi danno la mano e abbassano gli occhi per non guardarmi quando mi parlano perché sono una donna. A Nedjadici nella moschea scoppiano risse perché nuovi predicatori radicali vogliono cancellare le vecchie usanze bosniache della preghiera bosniaca. Non andare a Maoca, non vale la fatica, sono cattivi quelli là…».

«Il reclutatore»
A Sarajevo è appena iniziato il processo a Bilan Bosnic, il «reclutatore». Girava per le moschee, arruolava giovani poveri nei piccoli villaggi; non gli mancava certo chi ascoltava. Secondo i rapporti ufficiali nel califfato combattono 130 bosniaci, una trentina almeno sono già morti. Ma quelle sono le ottimistiche cifre ufficiali per non creare il panico.

Maoca è vicino a Brcko, quasi alla frontiera croata, quattro ore almeno da Sarajevo; guardiamo dal finestrino dell’auto lo srotolarsi dell’interminabile tedio della strada. A tratti tra i versanti innevati e scoscesi delle montagne piccoli villaggi si mostrano d’improvviso alla vista, per poi subito tornare a nascondersi. Anche nei più minuscoli due, tre minareti nuovi di zecca: il lento lavoro delle talpe islamiche, i soldi arrivati dall’Arabia Saudita. Da ogni parte si ergono montagne alte e fredde, fondali di uno scenario da tragedia; la neve ora cessa ora riappare in chiazze sparse, una neve asciutta e indifferente.

«Il martire»
In una locanda la storia che cerchiamo ci viene già addosso. Un gruppo di ragazzi silenziosi davanti a interminabili caffè. Hanno sguardi stanchi come quei frutti che sono seccati prima di maturare. Uno di loro, il viso raggrinzito in una sofferenza intensa, quando scopre che andiamo a Maoca, preme sui tasti del suo telefonino: «Guarda! Questo è Mirza Ganic, “ il martire”». Scorrono fotografie inondate di sole: un ragazzo barbuto alza il mitra sullo sfondo di una splendida villa, riconosco lo stile delle dimore dei ricchi siriani; il ragazzo con altri giovani barbuti saluta immerso in piscina… Nell’ultima il ragazzo è avvolto in una coperta, morto, attorno gli scarponi dei suoi compagni. «Era nato nel Sangiaccato, laggiù nella jihad è stato ferito: poteva essere salvato facilmente, non era una ferita mortale, ma ha rifiutato. Era andato lì per morire, ha voluto che lo lasciassero morire dissanguato…». Ripenso ad un altro nome che mi hanno fatto: Bairo Ikonovic, «il bosniaco», uno dei grandi capi nel califfato… C’è chi ha scelto per fuggire di viaggiare nello spazio, anche qui in Bosnia altri hanno scelto dunque di viaggiare nel tempo aggrappandosi a un glorioso passato lontano e a un sistema di vita che nel loro immaginario è l’età dell’oro dell’islam.

Nell’ultimo villaggio serbo vecchi fanno grandi segni con le mani alla richiesta della strada per Maoca, come se volessero allontanarci. La strada asfaltata finisce bruscamente, si imbocca uno stretto pantano dove la neve è diventata fango e serpeggia, ripida, mal tracciata, sul fianco del monte. La jeep sale a sobbalzi gemendo, sbandando. A fianco scorre il letto di un torrente tutto di granito, di un grigio chiarissimo. La natura non è imponente e maestosa come da noi, ma dura, corrucciata; Dio sembra aver buttato i monti a casaccio, di traverso, di fianco, verso Nord verso Sud, un groviglio inestricabile di dorsi rognosi, un mare tempestoso pietrificato per magia. Gli scuri alberi dormono abbandonati all’abbraccio della neve. Il piccolo cimitero serbo che hanno spostato a valle quando i musulmani hanno comprato le terre e le case è coperto di neve. Il suo riposo rende quieto e pacifico ogni passo. Ovunque si ergono lapidi e croci, molte senza nome. Sono incuriosito da quelle più vecchie pronte a cedere e a morire anche esse nella terra, le tombe senza lapide sono più belle ancora. Chi giace nel loro fondo è rimasto orfano per l’eternità.

Niente minareto
Il paese è arrampicato sul fianco del monte nel punto più ripido. Dietro una curva scivolando nel fango e nella neve un gruppo di bimbi si getta a lato: le bimbe hanno già il capo coperto, negli occhi qualcosa di beffardo e di soave, un sorriso di vecchia cattiva e di bambina triste insieme. Due dei più grandi imboccano una scorciatoia, vanno ad avvertire che arrivano gli stranieri.
Le case, i fienili sono di pietre rozze e di fango, hanno preso il colore cupo e rugginoso delle rocce circostanti. Le bandiere del califfato non ci sono più alle finestre delle case: le hanno tolte i poliziotti. Restano sui balconi, neri con le scritte bianche, gli striscioni che proclamano la vera fede. Ci fermiamo vicino al «mezdid», il luogo di preghiera: nella salafita Maoca non c’è il minareto. Nel negozio, una strana capanna in metallo dalla vernice scrostata, sono appesi poveri vestiti: lunghi mutandoni, jalabiye, niqab. Siamo arrivati prima di mezzogiorno, l’ora della preghiera: sfilano donne tutte in niqab nero, scivolando sulla neve su sandali di plastica dai colori vivaci. Si infilano nell’ingresso loro riservato. Gli uomini scendono dai sentieri innevati, hanno lunghe barbe assire, scarponi, zimarre pesanti gettate sulle jalabiye.

Il capo della comunità
Il capo, «l’emiro», si chiama Nesred Imamovic, è partito per la Siria mesi fa con le mogli e i figli. Ci hanno dato il nome di Merset Cekic come capo della comunità. Chiediamo di lui a un uomo che si affretta verso la preghiera; è guercio, il suo unico occhio si volta verso di noi con odio, sputa a terra: «Non c’è, andatevene subito, qui nessuno vuol parlare con voi…».

Un ragazzo controlla che non ci avviciniamo alle donne che entrano. Mersic spunta quando la preghiera è finita: è massiccio, la barba ondulata tinta con l’henné, un gigante degno di esser circondato da nuvole come un dio selvaggio. Ci caccia via, poi accetta di parlare, lì in mezzo alla neve».

«Ci chiamano terroristi»
«Non è facile vivere qui. Veniamo da posti diversi della Bosnia, molti lavorano come muratori e operai a Brcko, qualcuno ha tentato di andare in Germania o in Austria ma al confine quando vedono che veniamo da Maoca ci cacciano indietro dicendo che siamo terroristi. Per le bandiere sono venuti i soldati, le facce coperte, hanno terrorizzato i bambini, ne abbiano duecento. Hanno sfondato le case, a me hanno rubato tremila euro. Che dici straniero: non è terrorismo questo?»

Gli chiedo del califfato, di Mosul: «Maometto ha detto che tutto il mondo apparterrà all’islam… quando la croce sarà spezzata. Questo è il segno, che il momento sta arrivando…». Ma quella guerra santa uccide molti musulmani… «Rispondi prima a me straniero: che cosa fanno gli americani, gli inglesi, voi infedeli ai musulmani in Iraq, in Afghanistan, in Siria? Quello è fascismo. I musulmani di Sarajevo e delle città sono eguali agli americani, sono falsi credenti. Sogno una Bosnia in cui a ogni angolo ci sia una moschea per pregare». Insiste a portarmi a casa sua per mostrarmi i segni dell’aggressione poliziesca; uno dei figli impara a leggere sillabando i versetti del Corano, da una porta precipitosamente spariscono veli neri. Mi mostra il verbale della perquisizione: c’è scritto che sono stati sequestrati una pistola, tre baionette e una spada.

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