Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 21/02/2015, a pag. 2, con il titolo "Sisi può rivoluzionare l'islam, ma c'è già una fatwa per farlo ammazzare", l'analisi di Matteo Matzuzzi, che intervista Ashraf Ramelah, presidente di "Voice of the Copts".
Matteo Matzuzzi
Abdel Fattah Al Sisi
Il simbolo della Fratellanza Musulmana: il Corano e due scimitarre: il messaggio è chiaro
Roma. “Con la corruzione che c’è in Egitto, i Fratelli musulmani ben lontani dall’essere vinti e un presidente americano come Barack Obama che se ne sta alla larga dai problemi del vicino oriente, non so quanto Abdel Fattah al Sisi potrà durare”. Ashraf Ramelah, fondatore e presidente di Voice of the Copts, organizzazione no profit attiva nella difesa dei copti egiziani, si dice pessimista, in una conversazione con il Foglio, sul tentativo di mettere in moto quella “rivoluzione nell’islam” di cui il capo dello stato egiziano aveva parlato nel suo discorso tenuto a fine dicembre alla Grande università di al Azhar, al Cairo: “Certo, la scopa nuova scopa sempre meglio, ma credo che lui abbia davvero voglia di cambiare questo paese. Le resistenze, però, sono immani. C’è già una fatwa contro di lui, perché venga ammazzato dopo quello che ha detto ad al Azhar e per la sua partecipazione alla messa del Natale ortodosso nella cattedrale di San Marco”. Un fatto epocale, una cosa “mai vista prima nella storia”, dice Ramelah, che aggiunge: “Guardatelo mentre parlava ad al Azhar, era quasi aggressivo davanti ai dotti della umma. Una bella differenza rispetto alla pacatezza con cui ha salutato i partecipanti all’eucaristia di Natale. Quel discorso all’università è stato fondamentale”.
Ashraf Ramelah
Sisi sa che “il problema è tutto nel Corano. Il novanta per cento di ciò che è scritto lì sono frasi d’odio, di istigazione a conquistare il mondo. Lo sa ed è per questo che ha invocato una rivoluzione, andando pure contro i princìpi della stessa religione islamica”. Si pensi, ad esempio, a quanto ha detto pochi giorni fa – alla presenza del grande imam – sulla necessità di avviare un programma per il controllo delle nascite: “In occidente non ci si è accorti di questo fatto, ma parole così hanno la valenza di un terremoto. Sisi ha detto qualcosa che chiaramente contrasta con l’islam. E questo determina reazioni molto negative, sia nei suoi confronti sia nei confronti dei cristiani”, aggiunge il presidente di Voice of the Copts. Il motivo è presto detto: “I musulmani sono convinti che faccia tutto quello che vogliono i cristiani, che sia il loro grande protettore da ben prima di diventare presidente, in particolare da quando i copti lo sostennero nelle manifestazioni di piazza del 30 giugno 2013 che portarono pochi giorni dopo alla rimozione di Mohammed Morsi. Dimenticando, però, che Sisi era stato nominato capo del Consiglio supremo delle Forze armate e ministro della Difesa proprio da Morsi, in quanto ritenuto un musulmano devoto”.
Qualcuno, per la verità, ha pure detto che Sisi è ebreo da parte di madre: “E’ nato nel quartiere ebraico. Suo padre era un commerciante arabo che faceva affari con i suoi vicini ebrei e mai s’è saputo nulla di sua madre”, scriveva lo scorso aprile il giornalista Saber Mashhour, ricordando come il generale non avesse mai smentito la voce sussurrata tra le case dove nacque, tra gli altri, pure Gamal Abdel Nasser, limitandosi solo a sottolineare la particolare devozione ad Allah di entrambi i genitori”. Sisi non è l’unico a invocare il cambiamento, la rivoluzione religiosa che conduca a una reinterpretazione del testo sacro: “Lo fa anche qualche imam”, osserva Ramelah. Il punto è che non si può dire loro di eliminare le sure dove si ordina di ammazzare l’infedele, altrimenti sparisce l’islam. Come si fa a chiedere a un imam di evitare certi passaggi violenti se loro continuano a dire che quel testo è stato dettato così com’è da Dio in persona e che quindi non è aggiornabile? E’ come un cane che si morde la coda. Per questo penso sia molto difficile mettere in pratica quanto auspicato ad al Azhar, anche perché la differenza fondamentale tra noi e loro è che loro, i musulmani, quando emigrano in un altro paese, non hanno alcuna intenzione di integrarsi, di amalgamarsi con la società in cui vanno a inserirsi. Io l’ho fatto, in Italia e negli Stati Uniti. Mi sentivo un ospite e sono convinto che ci debba essere una mutua cooperazione: io aiuto te a patto che tu rispetti la nostra civiltà. Oggi si vede solo tanta falsa bontà; si cerca di comprendere chi in Europa non vuole vedere le donne completamente coperte dalla testa ai piedi, che ha fastidio nel sentire il suono delle campane, che non vuole mangiare carne di maiale”.
Difficile, così, parlare non solo di integrazione, ma anche di dialogo fattivo. Quanto all’Egitto, di certo non è cambiato oggi, e “l’errore che l’occidente continua a commettere è di paragonare Abdel Fattah al Sisi con il suo predecessore, Mohammed Morsi. E’ sbagliato e i copti lo sanno bene. I problemi sono iniziati ben prima, nel 1952, con la rivoluzione di Nasser, dei Fratelli musulmani. Da quel giorno hanno messo le mani sulla scuola, sui posti di lavoro e hanno occupato tutti i posti chiave del paese”. Poco importa che Nasser abbia sbattuto in galera migliaia di musulmani: “L’ha fatto solo perché erano suoi oppositori, era nient’altro che una banale lotta di potere”. Con Sadat le cose sono peggiorate: “Lui ha riaperto le celle delle prigioni e ha aizzato membri della Fratellanza contro i cristiani”, ricorda Ramelah: “Pochi mesi prima dell’assassinio del presidente, nel 1981, ottantatré copti furono trucidati con modalità che recentemente sono rimbalzate sui media grazie alle gesta dei miliziani jihadisti dello stato islamico: persone gettate dal tetto dei palazzi o bruciate vive. Nessuno ne parlò, non c’erano i social network e neanche i cellulari. Ma io lo ricordo bene”. Quanto a Hosni Mubarak, il vecchio rais cacciato a furor di popolo quattro anni fa, “era partito bene ma poi è caduto anche lui nella spirale della corruzione”. L’anno decisivo, per il nostro interlocutore, è stato il 1967: “La Guerra dei sei giorni ha inciso in maniera determinante sulla società egiziana. Le donne hanno iniziato a mettersi il velo con una frequenza prima sconosciuta, le infiltrazioni islamiste sono cresciute in maniera evidente. L’odio contro i cristiani c’era già, ma covava sotto la cenere, senza quella violenza esplosa successivamente e divenuta eclatante sotto il governo di Morsi”.
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