Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/02/2015, a pag. 1-11, con il titolo "Se l'Isis s'ispira al libretto rosso di Mao", l'analisi di Domenico Quirico.
Domenico Quirico Abdullah Azzam
Mao Tzedong in un manifesto di propaganda
I suoi occhi azzurri erano costantemente socchiusi, furtivi e ricoperti da un velo, come a voler nascondere pensieri altrimenti inconfessabili, e la sua gamba destra era vistosamente, gravemente ferita. Si appoggiava, a fatica, su una stampella, ma nessuno, per rispetto? per paura?, faceva l’atto di aiutarlo. Quando camminava nella casa-prigione di Yabrud la stampella risuonava: toc toc… Non era un arabo: forse un uomo del Caucaso o più facilmente un nordeuropeo. Ma la sua voce… Ah, la sua voce era rauca, minacciosa e pareva venir di lontano, da un mondo tenebroso, popolato di essere mostruosi, di demoni, di bestie parlanti. Teneva nella fondina portata a spalla una gigantesca Colt a tamburo: «L’ho presa a un comandante di Hezbollah, lui non voleva darmela…»,.
E poi e la porgeva, dopo aver fatto scivolar via i colpi, per fartela toccare come se fosse un gesto di grande cortesia.
L’ideologo palestinese
Fu lui che mi parlò per la prima volta di Abdullah Azzam «una delle grandi scintille della jihad»: «Cristiano, fai male a non conoscerlo, è stato compagno di lotta del grande sceicco Osama, è lui che ci ha insegnato, passo dopo passo, il sentiero della lotta e della vittoria, fino al califfato che nascerà!».
Il cielo sopra la moschea e le casette cineree e silenziose della città di Yabrud occupata dai ribelli siriani si scoloriva come un velluto azzurrognolo vecchio e sciupato. Piangevo, allora, di rabbia e di inquietudine come un bambino malato per una prigionia che sembrava senza fine. Dimenticai rapidamente quel nome, Azzam, e quell’uomo dagli occhi azzurri e la voce tenebrosa.
Fino a quando, tornato infine a casa, non ho visto nascere il califfato. Proprio nei luoghi in cui sono stato prigioniero. Ho scoperto allora che il mio carceriere non mentiva. Quel palestinese massiccio dalla grande barba grigia e dalla retorica accesa che gli conferiva autorevolezza, laureato a Damasco e ad Al Azhar (per noi il Vaticano dell’islam buono e tollerante), docente alle università giordane e saudite prima di diventare ideologo di Bin Laden, ha davvero descritto, passo dopo passo, la strategia del califfato e dello Stato islamico totalitario.
Ho guardato un filmato del 1988, gli anni della prima guerra afghana contro i russi: predica a un pubblico di qualche centinaio di persone in un centro islamico di Brooklyn dove aveva sede l’Ufficio servizi, l’organizzazione pachistana di Bin Laden che assisteva i combattenti della jihad in Afghanistan. È un edificio cadente, in un tratto sterrato di Atlantic avenue, sopra un ristorante cinese di nome Fu King. L’uomo grida: «Il sangue e il martirio sono l’unica strada per creare una società musulmana...».
Quella lezione a New York
Azzam era già un uomo famoso, aveva scritto un pamphlet di grande successo, «Difendere il territorio musulmano è un dovere per tutti». Spiegava che per restaurare il califfato e unire tutti i credenti del mondo sotto un unico sovrano c’era un solo motto: «Solo jihad e fucile, no ai negoziati ai colloqui e al dialogo…». L’Afghanistan non era che l’inizio: «Ciascuno dovrà continuare a combattere finché tutte le terre che erano musulmane non ci siano state restituite e finché l’islam non torni a regnare. Davanti a noi si estendono Palestina, Bukhara, Libano, Ciad, Eritrea, Somalia, Filippine, Birmania, Yemen, Taskhent e la Spagna…». Dicevano che questo profeta era in grado di spingere alla jihad i musulmani osservanti, anche i bigi, i prudenti, i pantofolai, con un semplice videotape. Girava il mondo alla ricerca di uomini e denaro predicando che «una ora sola di battaglia per la causa di Allah è meglio di sessant’anni di preghiere notturne…».
Decine, centinaia di altri Torquemada infervoravano il mondo del radicalismo islamico, preparavano in quel tempo l’Avvento della nuova era, le missioni di martiri con il ventre bardato di esplosivi. Ma ciò che era originale e ricco di conseguenze nelle infervorate lezioni del professore palestinese era la proposta di trasporre la lezione marxista nell’islam politico per rafforzarlo e renderlo egualmente micidiale. Il Diavolo non è nei dettagli, ma nelle grandi cause e nella Storia. Il marxismo era ovviamente per lui una dottrina empia come tutto ciò che è ateo. Ma le tecniche per la conquista del potere potevano essere saggiamente impiegate dagli islamisti che volevano ricostruire il califfato su porzioni intere del mondo dell’islam classico. Le due invenzioni comuniste da copiare erano il Komintern e soprattutto la «Base rossa».
L’arcipelago comunista
Il Komintern, l’Internazionale in versione leninista consisteva nella organizzazione della rivoluzione mondiale attorno a un centro motore, Mosca, che coordinava, finanziava, indirizzava. E il Komintern musulmano fu sperimentato la prima volta proprio con Al Qaeda. I cui messi organizzavano le varie insurrezioni musulmane, le radicalizzavano verso un fine comune. Il primo tentativo riuscito fu la Cecenia dove un giordano, Khattab, trasformò in jihad una rivolta etnico-nazionalista.
Ma era Mao il grande maestro. Dopo «la marcia dei diecimila», seguita a una sconfitta, aveva ideato una nuova strategia: occupare un territorio particolarmente diseredato, dove la popolazione era dimenticata o angariata dal potere centrale, e creare un embrione di Stato comunista, da difendere militarmente e amministrare. Queste basi rosse dovevano moltiplicarsi fino a formare un arcipelago di terre «liberate», che, raggiunta una certa potenza, dovevano collegarsi per convergere verso le terre più ricche tenute dal potere centrale e abbatterlo.
La Siria, dove la rivolta del 2011 aveva portato il caos e l’anarchia della guerra civile, con Bashar al Assad indebolito e la rivoluzione laica impotente e isolata, è stata lo Yenan islamista. Il cuneo su cui la leva del jihad può sollevare un mondo e sconnetterlo. Poi si è passati alle altre «Basi verdi»: terre dimenticate con costruzioni politiche e militari corrotte o precarie, in preda a ribellioni locali di brigate babeliche: il Nord-Est della Nigeria, il vuoto e i tetri barranchi sabbiosi del Sahel, il Sinai egiziano, la Libia devastata del dopo Gheddafi, le terre di pascolo e migrazione della Somalia. L’arcipelago sempre più fitto di basi verdi si è disegnato su una carta geografica dove le frontiere si scombinavano. La guerra santa poteva allora ramificarsi con un andamento di epidemia, di alluvione.
L’esempio in Afghanistan
Le legava un altro antico ordito storico: è la via del grande pellegrinaggio che portava dal fondo dalle rive del Niger attraverso il deserto infinito fino all’Egitto e poi alla Arabia e alla Mecca, carovane infinite di pellegrini con le sacche colme di polvere d’oro che lasciavano dietro leggende di santità e di ricchezza.
Azzam è morto quando l’avventura dell’insurrezione islamica che aveva così ben preparato era appena agli inizi. Il 24 novembre del 1989, un venerdì, a Peshawar era mezzogiorno, la folla dei fedeli si affrettava verso la preghiera alla moschea di Saba-e-Leil. Un’autobomba esplose proprio di fronte all’ingresso, seminando la morte. Morirono Azzam e i suoi due figli di 23 e 14 anni. I contorti Servizi pachistani? Forse. O una faida interna tra gli islamisti. Pochi giorni dopo Bin Laden lasciò il Pakistan: iniziava la sua guerra santa.
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