Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 20/02/2015, a pag. 19, con il titolo "La scelta di Jonathan: 'Andare via è giusto, il Vecchio continente non è sicuro per noi' ", l'intervista di Gabriele Isman a Jonathan Pacifici, vicepresidente degli italiani in Israele.
Gabriele Isman Jonathan Pacifici
Benjamin Netanyahu
«Oggi un ebreo con la kippah non può girare per l’Europa, le nostre scuole sono ridotte a bunker. Ecco perché Netanyahu ha ragione quando dice che gli ebrei devono andare a vivere in Israele». Jonathan Pacifici ha 36 anni e dal 1997 vive a Gerusalemme dove si occupa di startup. «Porto ancora addosso alcune schegge dal giorno dell’attentato nella Sinagoga di Roma del 1982. Avevo 4 anni: quando mi risvegliai in ospedale dissi “andrò a vivere in Israele”. Poi l’ho fatto davvero e non me ne sono mai pentito».
L’unica vittima di quell’attentato fu Stefano Gay Tachè: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato nel suo discorso di insediamento. Si è meravigliato ascoltando quel passaggio? «Le parole del presidente su Stefano non erano così scontate e forse non se n’è ancora colta appieno l’importanza. Negli anni ho sviluppato molta attenzione al tema della solidarietà immediata dopo un attentato e al silenzio che segue l’ondata emozionale. Questo mi ha fatto capire la strategia della vita, che è quella che viviamo noi qui in Israele».
Cosa intende per strategia della vita? «Dovremmo pianificare il futuro e invece ci ritroviamo a parlare di Shoah e di sicurezza, e lo dico ricordando anche la famiglia dei miei bisnonni sterminata nei campi nazisti. Dovremmo pianificare il futuro, e invece ci occupiamo tanto della morte e poco della vita. Ma Israele è uno degli hub mondiali più spumeggianti, pieno di innovazione, aperto nel confronto col mondo. Per questo fa bene Netanyahu a lanciare quell’appello, che è anche un richiamo all’Europa. Cosa deve fare un leader israeliano per difendere gli ebrei se non ricordare che esiste un posto dove possono vivere serenamente?».
Netanyahu però non dice mai che la serenità di Israele spesso ha un costo: ed è la sofferenza dei palestinesi. Lei cosa pensa? «Israele è un’isola di democrazia, di cultura ed innovazione, di tecnologia e tolleranza di progresso e verità. Con tutte le lacune, i problemi e le mancanze propri di una vita autentica di libertà. Sono decenni che Israele combatte (quasi) da sola contro il terrorismo che cerca di estirpare il concetto stesso di libertà, dicendo a tutti coloro che la accusano per questo “attenzione, arriverà anche da voi”. Ecco, oggi è arrivato. E che fa l’Europa?».
In tanti hanno dato torto al premier israeliano: da Angela Merkel a François Hollande fino al rabbino capo di Danimarca, Jair Melchior, che in un’intervista a Repubblica di due giorni fa ha sostenuto che “i motivi per tornare in Israele devono essere positivi. Altrimenti vuol dire cedere al ricatto dei terroristi”. «Ho molto rispetto per il rabbino Melchior, ma mi chiedo se vivano meglio i miei 4 figli in scuole e asili dove si parlano 10 lingue o i bambini ebrei nelle scuole superblindate di Roma e Parigi. Io ricordo l’indifferenza dei miei compagni e delle maestre della Montessori di Roma quando tornai in classe».
Il 17 marzo in Israele si vota. Non è legittimo il sospetto che l’appello di Netanyahu possa avere fini elettorali? «Gli ebrei della diaspora non vanno ai seggi, i sondaggi dicono che la posizione di Netanyahu è stabile. Frasi simili erano già arrivate da Peres e da altri leader israeliani, di destra e di sinistra. L’impatto che quelle dichiarazioni possono avere in sede elettorale è davvero marginale. L’Europa ha smesso di essere un luogo sicuro per noi ebrei da 70 anni. Dalle elezioni di marzo mi auguro che esca un governo stabile che possa collaborare con l’Europa a un percorso comune di valori, di crescita, di innovazione, per contrapporre la cultura della vita alla strategia della morte dei terroristi dell’Is. Finora gli Stati Uniti sono stati un partner più credibile dell’Europa, ma qualcosa potrebbe cambiare, e l’Italia può far molto».
Nel 2014 sono stati 323 gli italiani che si sono trasferiti in Israele. Soltanto nel 1970 il numero era stato più alto: 330. E negli ultimi dieci anni il numero degli emigrati è di circa 2mila persone. Cosa pensa di questi numeri? «Mi sembrano importanti. Ognuno ha diritto di seguire le proprie aspirazioni, e credo che Netanyahu faccia bene a dirlo».
Eppure anche Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, ha parlato di “ebrei d’Europa” per respingere l’appello. Lei non crede che questa identità ebraica ma anche europea sia ormai riconosciuta all’interno delle comunità? «Io vedo che nelle comunità europee si percepisce un senso di assedio e che questo non passa soltanto per le problematiche della sicurezza dei nostri luoghi. I media spesso attaccano Israele quando in Medio Oriente scoppiano le crisi. Facebook e i commenti agli articoli dei giornali che trattano di Israele pullulano di odio antiebraico. Proprio su repubblica.it avete mostrato il video del giornalista francese con la kippah insultato in giro per Parigi: siamo sicuri che se l’esperimento fosse ripetuto a Roma l’esito non sarebbe lo stesso?».
Per inviare la propria opinione a Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante