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La Stampa Rassegna Stampa
19.02.2015 Libia: un labirinto di terrore, ma l'Occidente deve aiutare l'Egitto
Cronache di Giordano Stabile, Antonella Rampino, analisi di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 19 febbraio 2015
Pagina: 2
Autore: Giordano Stabile - Domenico Quirico - Antonella Rampino
Titolo: «Blitz di terra dell'Egitto a Derna. L'Onu: per ora nessun intervento - Un labirinto di bande armate: impossibile fidarsi - Pressing di Gentiloni: 'Agire in fretta'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/02/2015, a pag. 2, con il titolo "Blitz di terra dell'Egitto a Derna. L'Onu: per ora nessun intervento", la cronaca di Giordano Stabile; a pag. 4, con il titolo "Un labirinto di bande armate: impossibile fidarsi", l'analisi di Domenico Quirico; a pag. 3, con il titolo "Pressing di Gentiloni: 'Agire in fretta' ", la cronaca di Antonella Rampino.

Ecco gli articoli:

Giordano Stabile: "Blitz di terra dell'Egitto a Derna. L'Onu: per ora nessun intervento"


Giordano Stabile

L’attacco di terra in Libia è già arrivato. Un blitz nella tana del lupo dell’Isis, a Derna, capoluogo in terra libica del califfato. Condotto ieri all’alba dalle forze speciali egiziane, la «task force 999», un’unità speciale per operazioni all’estero. Un raid perfetto, secondo fonti del Cairo: condotto «da 30 militari», con 155 miliziani dello Stato islamico uccisi, altri 55 catturati, nessun soldato egiziano ferito.

Dopo due giorni di bombardamenti dal cielo il generale Abdel Fattah Al Sisi, presidente dell’Egitto, ha voluto dare un’altra dimostrazione di forza, in profondità nel territorio libico, a 400 chilometri dal confine. Vicino alla frontiera, lo stesso Al Sisi ha visitato la base dell’aeronautica di Habata e ribadito che userà tutti gli strumenti per impedire «che venga compromessa la sicurezza nazionale».

Anche Tripoli fa i raid
Tempi e logistica del blitz tendono a confermare che forze speciali egiziane sono già nella zona di Tobruk, dove ha sede il governo amico di Abdullah al Thani e operano le forze militari e paramilitari dell’altro amico, il generale Khalifa Haftar. Ma i toni prudenti di Al Sisi hanno anticipato il mutare del vento all’Onu, dove l’ipotesi di un via libera a un intervento massiccio di forze internazionali in Libia è sempre più lontano. Crescono invece quelle di un «modello Iraq-Siria» per contrastare l’Isis senza impegnare «stivali sul terreno». Quindi forze locali appoggiate dal cielo dai caccia della coalizione, come i curdi a Kobane. Un primo esempio era arrivato martedì a Sirte, altra roccaforte dell’Isis. Le milizie islamico-moderate di Misurata hanno investito i miliziani dopo che i raid egiziani li avevano martellati. I jihadisti si sono arroccati nel centro città.

A Sirte, nel 2011, era finita l’avventura di Gheddafi, ucciso dai rivoluzionari appoggiati dalla Nato. I loro eredi si sono spartiti il bottino e continuano a combattere, anche se ieri l’inviato Onu per la Libia Bernardino Leon ha parlato di accordo «possibile e presto» fra le fazioni. Ma il governo islamico moderato di Tripoli, guidato dal premier Omar al Hasi, dopo aver condannato come «terroristici» i raid egiziani, ha fatto alzare in volo i suoi vecchi Mig-23 e colpito l’aeroporto di Zintan, a Ovest della capitale, da dove le milizie berbere alleate di Tobruk lanciano attacchi.

Le ipotesi di bozza
Un groviglio di alleanze e contro-alleanze che oltre a favorire l’Isis rendono impossibile un chiaro schieramento di forze. Non c’è un fronte definito, come fra i peshmerga curdi e l’Isis in Iraq. E questo complica la partita diplomatica all’Onu.

Il Consiglio di Sicurezza riunito su richiesta di Francia ed Egitto, ha discusso nella notte l’ipotesi di un’operazione di «peace enforcing». L’Italia, con il suo ambasciatore Sebastiano Cardi ha ribadito la sua determinazione «a contribuire alla stabilizzazione» libica e «ad assumere un ruolo di primo piano nella cornice dell’iniziativa Onu». Ieri anche Il Cairo ha rinunciato all’intervento con truppe straniere e, assieme al governo libico di Tobruk, ha chiesto all’Onu di revocare l’embargo sulla vendita di armi, per rafforzare la lotta all’Isis. Il pantano libico comincia a far paura a tutti.

Domenico Quirico: "Un labirinto di bande armate: impossibile fidarsi"


Domenico Quirico

Molti artisti delle sigle, acrobati dell’ipotesi e virtuosi con i testi, i comunicati e gli indizi sono al lavoro: l’Occidente cerca disperatamente qualcuno da promuovere ad alleato per togliersi di torno, almeno in Libia, quei preponderanti avversari che sono gli zeloti dell’apocalisse califfale. Vogliamo un libico affidabile che come gli eroi di Carlyle, concili in sé i caratteri contradditori di ognuno. Necessità e aspirazione frettolosa che sembra fatta apposta per entrare nella penombra di nuove tragedie.

A questi semplificatori e perciò semplicisti, per srotolare il filo di Arianna nel labirinto libico potrebbe essere utile, come io ho fatto, il duro pellegrinaggio sulla strada litoranea che conduce dal confine tunisino a Tripoli. A distanza di pochi chilometri l’uno dall’altro si incontrano continui, successivi posti di blocco: sbarramenti di terra o di rottami, pick up con cannone o mitragliera sistemati a losanga, giovanotti dall’aspetto di annoiati maneggiatori di bombe e kalashnikov. Identiche le approssimative uniformi, identiche le armi, assenti bandiere, labari o gagliardetti identificativi. L’amico libico che mi accompagnava aveva assorbito, come tutti i libici in questi quattro anni di «democrazia», una sofisticata tecnica di decifrazione: questi sono della banda di Misurata, questi sono di Fajr Libya, questi sono ancor più radicali, al Qaeda, questi sono dell’esercito di Tobruk… Così per chilometri, da batticuore a batticuore. Ecco: questa che si srotola è la Libia, visivamente. Decine, centinaia di bande armate che controllano parti più o meno grandi di territorio. Quali i buoni, i cattivi, i cattivissimi? I rapporti tra loro non si muovono su scelte limpidamente ideologiche o, come pretendiamo noi in Europa, sulla base della distinzione, in termini dualisti ottocenteschi, di islamisti e laici: ricerca, ingenua, della versione bonaria e domenicale dell’islam. Si azzannano tra loro, la maggior parte, come cani senza padrone, sulla base dell’interesse: il controllo di una città, di un punto di transito che rende, di un frammento del boccone petrolifero, di una antipatia tribale. Gli islamisti sono cresciuti in questo caos, lo hanno alimentato per imporre, poi, il loro «ordine» semplificatore.
Tutto è ambiguo: per esempio «il gruppo di Misurata», che controlla Tripoli e la governa. Li hanno buccinati come eroi soprattutto dopo la ripresa di Sirte. Bello ma falso. Perché hanno perso le ultime elezioni, ma hanno rifiutato di lasciare il potere costringendo il Parlamento eletto, quello sì radicalmente anti islamico, a emigrare, per sopravvivere, nelle cirenaiche lontananze di Tobruk. Un principio di legittimità che si colorisce di tirannide. Hanno metodicamente saccheggiato la capitale, dai frigoriferi ai dossier della vecchia polizia di Gheddafi. E soprattutto hanno, fino a ieri, combattuto fianco a fianco con le formazioni più indemoniate del jihad. Strane simmetrie per il possibile controtipo del califfato. Formati alle predicazioni dei Fratelli musulmani non sembrano proprio trinceristi di una nuova Libia emendata dal torbidume islamista.

Antonella Rampino: "Pressing di Gentiloni: 'Agire in fretta' "


Antonella Rampino             Paolo Gentiloni

Dopo la drammatizzazione, la razionalizzazione. Ieri sono stati il ministro della Difesa Roberta Pinotti e il sottosegretario di Palazzo Chigi con delega all’intelligence Marco Minniti a rilevare - finalmente - che il Califfato in Libia si è infiltrato, ma certo non ha in possesso il Paese, come poteva sembrare per effetto ottico conseguente alla strategia mediatica dell’Isis e dati i toni di dibattito in Italia.

La retromarcia
E coerentemente con la linea di prudenza marcata il giorno prima dal premier Matteo Renzi, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che il 13 febbraio aveva dichiarato «l’Italia è pronta a combattere in Libia», precisando poi «contro il terrorismo», ieri in Parlamento ha chiamato alla «soluzione politica». Anche se certo i tempi non sono infiniti», la via è anzitutto quella della diplomazia, e l’Italia vuole fare la sua parte appellandosi alla comunità e alla «legittimità internazionale». Ma, dice polemico Gentiloni attaccato dal Califfato per quella sua dichiarazione del 13, «nessuna crociata».

L’asse con gli Stati Uniti
La sera prima, aveva avuto un colloquio con l’omologo americano John Kerry, e poi la Farnesina aveva diramato un comunicato congiunto d’iniziativa francese nel quale Italia, Germania, Spagna, Regno Unito e Usa in sostanza confermano il sostegno all’inviato Onu Bernardino Leon che sta tentando una difficile mediazione tra Tripoli e Tobruk, precondizione di ogni possibile peace-enforcing, e sul cui operato erano stati fatti circolare dubbi proprio dall’Italia. Sia Gentiloni con Kerry che Mattarella al telefono con Obama hanno rinsaldato la comune volontà di sciogliere il rebus libico: si sa che gli Stati Uniti si attendono molto dall’Italia, l’unico Paese ad avere efficienti «antenne» su quel territorio.
Aula deserta alla Camera per l’intervento di Gentiloni, e dibattito che ha rivelato quale baraonda politica potrebbe verificarsi se poi davvero si dovesse varare una missione in Libia, ma rilevante poi in Senato il primo intervento d’emiciclo del presidente emerito Giorgio Napolitano. Che ha richiamato l’Italia ai suoi doveri, davanti ai quali «non possiamo evadere, né scappare». Non possiamo tirarci indietro «come non ci tirammo indietro nel 2011».

L’intervento del 2011
L’intervento con Nato e Onu all’epoca fu giusto e «fu votata una mozione parlamentare con amplissimo consenso». I berlusconiani da giorni ripetono invece che Berlusconi fu «costretto» dall’allora capo dello Stato ad aderire all’intervento.

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