Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/02/2015, a pag. 1-31, con il titolo "Aprirsi all'altro islam", l'editoriale di Roberto Toscano; a pag. 1-31, con il titolo "Tutti Charlie, ma non tutti Lars Vilks", il commento di Cesare Martinetti, entrambi preceduti dai nostri commenti.
Ecco gli articoli:
"Europa, la pagherai. Il tuo 11 settembre si avvicina". Un chiaro esempio di moderazione islamica
Roberto Toscano: "Aprirsi all'altro islam"
Già dal titolo è ben chiara la proposta di Roberto Toscano, che sostiene che il vero islam non sia quello dei terroristi, ma quello di tante persone che non farebbero male a una mosca. Ancora una volta dopo un attentato del terrorismo islamico, Toscano divide nettamente - e fantasiosamente - il mondo islamico in due blocchi. Nessuna persona in buona fede dubita naturalmente dell'esistenza di molti musulmani che rifiutano il terrorismo, ma si tratta di voci che hanno peso risibile e nessuna influenza. Inoltre, come mai l' "altro islam" - così lo definisce Toscano - non fa sentire la propria voce? Perché i musulmani moderati, se ci sono, non manifestano pubblicamente la loro opinione, perché non scendono in piazza prendendo le distanze esplicitamente dal terrorismo islamico?
Invece i musulmani sembrano interessati a manifestare soltanto quando è possibile accusare a torto Israele di crimini contro gli arabi palestinesi.
Toscano, infine, ripropone ancora una volta il ritornello secondo cui tutte le religioni vedrebbero tra i propri aderenti dei fanatici. Un argomento ridicolo: ciò che va giudicato è l'insieme delle azioni e il loro significato.
Ecco il pezzo:
Roberto Toscano
L’emozione suscitata dagli attentati di Parigi aveva indotto qualche commentatore a parlare iperbolicamente di un «11 settembre europeo». Purtroppo non è così, nel senso che nelle stesse dimensioni di quell’attacco all’America e nella complessità della sua organizzazione era insita una difficile ripetibilità. Negli attentati di Parigi e Copenaghen ci troviamo invece di fronte a qualcosa di tragicamente ripetibile, di facile organizzazione e a basso costo, e soprattutto di impossibile prevenzione. Corriamo il rischio di entrare in una sconcertante fase in cui – se dovessimo mantenere quell’improprio paragone – potremmo avere, se non un 11 settembre quotidiano, un 11 settembre mensile. C’è da chiedersi comunque se sapremo tenere i nervi a posto e soprattutto contrastare e reprimere senza per questo abbandonare i nostri principi di legalità e libertà.
Cerchiamo per prima cosa di rispondere ad alcune domande. Gli attentati di Parigi e Copenaghen sono stati prodotti dalla questione della blasfemia? E se è così, non sarebbe bene mettere un limite di natura legale alla libertà di satira, e più in generale alla libertà di espressione? Vi è, in questo modo di porre la questione, un grave rischio.
Se lasciassimo alla potenziale «parte lesa» la possibilità di definire la soglia dell’offesa, il permissibile e l’impermissibile, finiremmo forse per garantire la nostra tranquillità, ma a prezzo di un silenzio generalizzato, di un impoverimento culturale, di una regressione politica difficilmente compatibile con la democrazia. Diverso è invece il discorso su quella «etica della responsabilità» che ci dovrebbe imporre una valutazione degli effetti della nostra azione, inducendoci in alcune circostanze ad astenerci dall’esercitare un diritto che pure rimane nostro.
E poi, questo discorso su offesa e blasfemia può essere fuorviante, se pensiamo che sia a Parigi che a Copenaghen sono stati presi contestualmente di mira non soltanto i blasfemi caricaturisti, ma anche gli ebrei – ancora una volta colpiti, come tante volte nella storia, per quello che sono piuttosto che per quello che fanno. E questo come facciamo a prevenirlo? Chiudendo le sinagoghe o forse, come Netanyahu torna demagogicamente a proporre, facendo emigrare in Israele le comunità ebraiche europee?
Sorge anche un’altra domanda: chi sono i terroristi e cosa li ispira? Negli ultimi tempi è capitato spesso di sentir dire che gli attentatori «non sono musulmani», ma solamente pazzi criminali. Lasciamo che a questa affermazione risponda la dichiarazione di un gruppo di intellettuali musulmani (fra cui Tariq Ramadan, un moderato ma pur sempre islamico, se non islamista): «Affermare che gli atti terroristi commessi in nome dell’islam non hanno niente a che vedere con la religione è come dire che le crociate non avevano niente a che vedere con il cristianesimo». Vengono qui subito in mente le recenti dichiarazioni di Obama che, ad un «breakfast di preghiera» alla Casa Bianca, ha affermato – citando in particolare crociate e Inquisizione – che tutte le religioni, storicamente, si sono rese colpevoli di crimini contro l’umanità. Cosa che ha suscitato una violenta reazione settaria da parte degli ultrà repubblicani, «cristianisti» piuttosto che evangelicamente cristiani. Il fatto è che le religioni non possono pretendere di essere giudicate soltanto sulla base dei principi dei loro fondatori e dei loro testi sacri, e non sul comportamento dei loro fedeli e sul concreto impatto sulle società in cui si radicano. Come dice il Vangelo, «dai loro frutti li riconoscerete».
Tutte le religioni, tutte le ideologie politiche, possono avere versioni intolleranti e anche violente. Versioni che – con una definizione forse storicamente impropria ma politicamente centrata – si possono definire come «fasciste».
Da tempo imperversa la polemica sull’uso del termine «islamofascismo». Per i musulmani si tratterebbe di un’inammissibile e razzista denigrazione della loro fede, di un’ennesima manifestazione di islamofobia. Certo, hanno torto quando pretendono di chiudere la bocca a qualsiasi critica che viene loro rivolta definendola islamofoba, ma hanno senz’altro ragione nei confronti di quelli che (esistono, e come) usano il termine in modo indiscriminato nei confronti di tutta una religione, appiattendo ogni differenza fra islamici, islamisti, islamisti radicali e terroristi.
In modo paradossale e perverso sembra oggi che, come conseguenza del terrorismo e della sfida jihadista in Medio Oriente e Nord Africa, l’opinione pubblica occidentale tenda a prendere per buona la definizione dell’islam che viene data dai wahabiti assassini: un islam intollerante, violento, retrogrado. Servirebbe un po’ meno d’ignoranza su una civiltà che, del resto come la nostra, attraverso i secoli ha prodotto il peggio ma anche il meglio. Non tutti hanno il tempo di approfondire la storia dell’islam, ma basterebbe guardare uno straordinario documento che in questi giorni circola su internet. In una registrazione fatta con un cellulare si vede una donna molto anziana che, in una zona controllata dallo Stato Islamico, affronta con il coraggio della fede religiosa e della umana indignazione una pattuglia di jihadisti accusandoli di essere assassini e di non rispettare i precetti di misericordia di Allah. Lo fa citando a memoria brani del Corano (che certo, pur essendo chiaramente una persona semplice, conosce molto meglio dei bruti che l’ascoltano sghignazzando) e persino testi di poesia.
Un altro islam. Un islam che dobbiamo rispettare ed accogliere. Un islam che dovrà prevalere.
Cesare Martinetti: "Tutti Charlie, ma non tutti Lars Vilks"
"Islam significa diritto umano e animale"
Martinetti sostiene giustamente come tutti, dopo l'attentato di Parigi, abbiano espresso vicinanza a Charlie Hebdo con lo slogan "Je suis Charlie", ma ben pochi abbiano fatto lo stesso nei confronti del vignettista svedese Lars Vilks, dal 2007 nel mirino del terrorismo islamico. Ancor meno hanno detto "Je suis juif", "Sono ebreo", dopo i sanguinosi attacchi antisemiti di Parigi e Copenhagen.
In ogni caso, anche alle parole spesso non seguono i fatti. La Stampa, su cui Martinetti scrive, come tutti gli altri quotidiani italiani non ha pubblicato oggi le vignette di Vilks. Informazione Corretta lo ha fatto ieri, e ha riproposto oggi la vignetta incriminata qui e in altra pagina.
Ecco l'articolo:
Eravamo tutti Charlie. Ma perché non siamo tutti Lars Vilks? Eppure questo vignettista svedese che sabato pomeriggio doveva cadere sotto i colpi di un killer che diceva di sparare nel nome di Allah, era nella lista dei «ricercati» di Al Qaida accanto a quello di Stéphane Charbonnier, «Charb», il direttore di Charlie Hebdo caduto il 7 gennaio della carneficina di Parigi. Eppure Lars era finito in quella lista per la stessa ragione per la quale c’era finito Charb, per le sue vignette su Maometto. Non è morto, a differenza di Charb e degli altri tre di Charlie. I colpi di mitra erano veri, però, e lui s’è salvato perché più fortunato dei suoi colleghi o semplicemente perché il killer era meno organizzato dei micidiali fratelli Kouachi di Parigi. Non ci dovrebbero essere differenze nella valutazione del gesto, nella determinazione dell’obbiettivo e la solidarietà dovrebbe essere uguale.
E se molti – non tutti – giornali il giorno dopo la sparatoria di Parigi hanno pubblicato alcune – non tutte – le vignette di Charlie Hebdo, perché nessuno ha pubblicato o annunciato di voler pubblicare le vignette, o meglio «la» vignetta di Lars Vilks? Quella vignetta – che La Stampa non pubblicherà – che è valsa a Vilks minacce di morte e una vita sotto scorta, raffigura un cane smagrito e apparentemente pulcioso che invece della testa ha il viso di Maometto. Accanto a lui un cartello avverte: «Islam means human & animal rights», «Islam significa diritti umani e animali». Nella raffigurazione l’animale è Maometto e non bisogna dimenticare che nella tradizione islamica il cane è un animale impuro.
Ecco, veniamo al dunque. Per solidarietà con Charlie Hebdo e per rivendicare i principi della nostra società - diciamo così – «liberal democratica», molti giornali pubblicarono allora le vignette del settimanale francese. Molti, non tutti, per esempio non gli anglosassoni e non gli americani. Non solo. Non tutte le vignette vennero pubblicate, ma una selezione che escludeva – per esempio – le più crude, le più grossolane e le più – diciamo pure – oscene perché Charlie era questo. La solidarietà e l’effetto di difesa dei principi venne comunque affermato con fermezza e passione autentica. Come dire: la differenza tra noi e voi è che da noi tutti hanno il diritto di parola e di immagine. È il pubblico che sceglie se leggere o non leggere, guardare o non guardare, divertirsi o irritarsi. Non c’è il Califfo e nemmeno il Papa che abbia il diritto di dire ciò che si pubblica e cosa no. Certo, qualcuno si offenderà, in Francia, per esempio, la blasfemia non è reato. Se ci sono gli estremi per una denuncia, i giudici dei nostri Stati di diritto sono lì apposta per decidere.
Torniamo a Lars Vilks e alla sua vignetta su Maometto. Perché nessuno ha pensato di pubblicarla per solidarietà col disegnatore svedese? Diamo una risposta non convenzionale: quella vignetta è orrenda, non fa ridere, non contiene satira, non fa discutere, non solleva una riflessione o una discussione. Eppure, per quello stesso principio di solidarietà ribadiamo qui che Lars Vilks aveva diritto di pubblicare il suo brutto disegno. E noi di dire che non ci piace.
Il punto non è lui, ma siamo noi. Il perbenismo che ha censurato le vignette più crude di Charlie Hebdo sui nostri giornali è quel mal sottile che ci impedisce di vedere fino al fondo le cose e alla fine di sottovalutarle. Secondo un sondaggio pubblicato da Le Monde, più del 60 per cento dei francesi si sente in guerra. Copenaghen e la profanazione delle tombe al cimitero ebraico dell’Alsazia devono farci capire che quella guerra riguarda anche noi.
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