Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/02/2015, a pag. 7, con il titolo "Choc nel Paese della felicità: 'Non ci faremo censurare' ", la cronaca e commento di Francesca Paci.
Francesca Paci
Il luogo, presso la sinagoga di Copenhagen, dove è stato ucciso un ebreo di 37 anni
«Siamo sotto choc, pur avendo ricevuto minacce la Danimarca non è mai stata protagonista di un attentato del genere, il peggiore dalla seconda guerra mondiale, sapevamo che poteva accadere».
«Ma era un’eventualità così teorica che quando dopo aver introdotto l’ambasciatore francese ho sentito sparare non ho pensato al terrorismo, è stato un attimo, poi ho udito urlare in una lingua straniera, forse arabo, ci siamo buttati tutti sotto le scrivanie e mi sono ricordato dei colleghi di Charlie Hebdo» racconta Niels Ivar Larsen, giornalista dell’«Information» e uno degli organizzatori dell’evento di sabato al caffè di Krudttønden. Fuori, fa notare, la vita è quella di sempre: i locali poco popolati come ogni domenica, le luci malinconiche del lunapark Tivoli, le mamme con le guance paonazze che pedalano trascinando il carrello con dentro i figli. Non si vede polizia, ma l’atmosfera è sospesa come prima della pioggia.
«Ci sentivamo al sicuro»
La Danimarca, 5,5 milioni di abitanti e la fama statistica di Paese della felicità, guarda la follia delle ultime ore come un film. «Nessuno immaginava che potesse capitare a noi» ragiona a un tavolo della catena Baresso l’universitario Andreas Skadborg, ammettendo l’incredulità di un popolo che ha attraversato senza traumi il ’900 per ritrovarsi nel mirino dell’odio settario del nuovo millennio. La sinagoga colpita la notte scorsa dista un paio di isolati e davanti all’ingresso, tra le persone radunate per solidarietà sotto la supervisione di una volante, circola il medesimo stupore perché, spiega il 52enne Jacob, «qui non siamo in Francia e finora gli ebrei non si erano mai sentiti in pericolo».
Ci sono due morti, 5 feriti, c’è il capo degli 007 Jens Madsen che ipotizza un’emulazione della strage di Charlie Hebdo e c’è il presunto killer, un 22enne finora dedito alla microcriminalità. Tutto adesso, tutto insieme, uno schiaffo in pieno viso a poco più di un mese dall’attentato a Charlie Hebdo. C’è qualcosa di marcio in Danimarca?
La perdita dell’innocenza
Il cafè Krudttønden è nella zona Østerbro, una delle più benestanti di Copenaghen. Davanti al locale dove stazionano le telecamere c’è una distesa di lumini funebri. Lo scrittore Morten Brask abita a pochi isolati: «Ho parlato con i miei amici, ho cercato sui social network, c’è un’aria strana, quasi che più della paura potesse la paura di apparire spiazzati, dobbiamo mostrarci forti e andare avanti come se niente fosse». L’innocenza, dice, i danesi l’hanno persa un po’ alla volta negli ultimi anni: «Nel 2005, pubblicando le vignette contro Maometto, l’Jyllands Posten ci ha rivelato che la tolleranza di un villaggio come il nostro può trasformarsi nel suo opposto nel villaggio globale».
In molti leggono in chiave sia culturale che politica la sfida di quell’islam radicale denunciato da tempo dal giovane poeta danese Yahya Hassan, vicino a Gert Wilders. «È innegabile che il fondamentalismo islamico metta i nostri valori sotto accusa» osserva Hecktor su un divano dello Studentehuset, il pub degli studenti dove s’incontrano ragazzi colorati, vestiti in modo discinto o castigato, transgender, hippy della non distante comune di Christiania. L’amico Clement Knudsen, simpatizzante della sinistra estrema di Enhedslisten, pensa al voto di settembre: «Se ne avvantaggerà la destra di Dansk Folkeparti. Da anni cavalcano l’antieuropeismo che seduce anche gli antirazzisti come me, ma ora lasceranno perdere gli immigrati polacchi e faranno campagna sull’islamofobia, noi contro loro».
«Restare uniti»
L’identità è il nervo scoperto della Danimarca, dove destra e sinistra concordano su temi civili come omosessualità o aborto nella convinzione che, a libertà acquisite, alla politica restino l’economia e gli affari esteri.
«Dobbiamo essere uniti» tuona il premier danese Halle Thorning Schmidt. «Dobbiamo rifiutare qualsiasi autocensura» insiste il giornalista Larsen. La Danimarca ammette lo choc ma ostenta controllo, perfino troppo, tutti escludono rappresaglie contro luoghi di culto islamico. Eppure, rivela il tassista pakistano Mohammed, i genitori lontani dei musulmani che vivono qui telefonano per sapere se è tutto a posto. Eppure le certezze danesi paiono scricchiolare come nei localmente poco amati film del connazionale Lars von Triar.
«Mi sento liberal e socialista ma ho paura delle contraddizioni che l’Ue ci sta facendo esplodere dentro» osservava la 26enne Sisdel Jensen prima di decidere di non votare alle elezioni europee di maggio. Oggi si guarda indietro e sorride amara: «Il nostro senso di responsabilità protestante confligge con le differenze culturali di chi per esempio in assenza del controllore non paga il biglietto figurarsi con chi odia la nostra libertà».
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