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La lezione dei quaderni neri Cartoline da Eurabia, da Ugo Volli Cari amici,
Perché il problema non è Di Cesare, che tutto sommato è solo vicepresidente - lo ripeto, non pentita, il presidente si è dimesso dopo le ultime rivelazioni, lei no, dell'associazione dedicata al culto del Fuehrer della filosofia: piccolo cabotaggio accademico. Il problema è lui, Heidegger. Uno che è stato riconosciuto da molti come il più grande filosofo del novecento e che dopo molte penose e pretestuose giutificazioni fornite dagli allievi per smentire il suo nazismo e dopo molte prove che il suo “gergo dell'autenticità" (la definizione è di Adorno) fosse semplicemente un esprimere in codice i temi ideologici del nazismo, ora si rivela da sé nazista antisemita, apologeta del genocidio, in diari attentamente conservati e da lui destinati alla pubblicazione molti anni dopo la morte proprio per ribadire il suo messaggio fondamentale. Questo perché il suo antisemitismo non è semplice frutto di pregiudizi, di stoltezza, di odio immotivato e senza rapporto con la sua filosofia, come fu per esempio quello di Frege, uno dei fondatori della filosofia analitica, fanatico antisemita ma senza che di questo orribile vizio si trovi riflesso nell'opera logica. No, come ha cura di ribadire la stessa Di Cesare, quello di Heidegger era un “antisemitismo metafisico”, cioè strettamente connesso al nucleo della sua filosofia, sviluppo logico dei suoi temi fondamentali. Heidegger ritiene insomma che l'antisemitismo sia conseguenza necessaria della sua filosofia, pensa di non poter essere coerente con se stesso senza arrivare a un antisemitismo estremo come il suo, cioè alla giustificazione della Shoà come “autoannientamento” dei “complici” dei “mali della modernità”. Dunque, è un giudizio su Heidegger che risulta di nuovo necessario: che uomo è uno che scrive queste cose? Che pensiero è quello che ritiene di doversi concludere nella giustificazione di un genocidio? Dove sono le radici di tanta perversione? Si possono “salvare” alcune delle elaborazioni di Heidegger? Tutta la “magia” delle sue paraetimologie, la retorica autoritaria con cui fin dall'inizio della sua opera cerca di convincerci che la vita debba essere vissuta in una certa maniera (“per la morte”), che la società, la lingua, il tempo ecc. debbano essere concepite non come banalmente pare a tutti, ma secondo certe sue intuizioni - tutto ciò che non ha evidentemente ragioni morali (se no sarebbe banale “umanismo”, figuriamoci...) tutto ciò non è dall'inizio una costruzione ideologica razzista? E' una domanda che bisogna pur porsi. Ma ce n'è un'altra, più generale. Una disciplina, come la filosofia, che stabilisce che questo retore del nazismo è il suo più grande esponente da cent'anni o più, tanto da non poterlo espellere dal suo canone, anche se la conclusione del suo pensiero è l'esaltazione “metafisica” dello sterminio degli ebrei - non avrà qualche cosa di profondamente marcio al suo centro? Se i filosofi veri sono come Heidegger e i loro epigoni si chiamano Vattimo, Di Cesare e così via, non sarà il caso di dire che l'autodefinizione, l'autocomprensione, l'autovalutazione di questa disciplina è profondamente sbagliata? Non sarà compito di chi si definisce filosofo chiedersi “che cosa è andato storto?”, “dove abbiamo sbagliato?”, “perché siamo caduti così in basso?”. Essendo uno che non ha mai avuto l'ardire di definirsi filosofo, ma è ordinario in un settore disciplinare che si chiama “filosofia del linguaggio”, mi permetto di pensare proprio questo. Dopo che l' ”ultimo grande filosofo” ha dichiarato nella sua eredità filosofica che il solo orrore della Shoà sia stato non aver lasciato i tedeschi finire lo sterminio degli ebrei, mi chiedo non tanto se dobbiamo prendere sul serio l'ideologia anarchica che si pretende ebraica di Donatella di Cesare, nemmeno la questione più seria se non dobbiamo espellere Heidegger dalla storia della filosofia per manifesta indegnità morale, ma se abbia senso oggi parlare ancora di filosofia. Almeno di quella filosofia in cui Heidegger è un grande.
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