Dal FATTO QUOTIDIANO di oggi, 02/02/2015, a pag. 1-14, riprendiamo, con il titolo "Contro il muro con i colori della pace", l'articolo di Serena Fiorletta.
Il Fatto Quotidiano non si interessa molto di politica estera, per fortuna. Oggi lo fa, con un lungo articolo che è una summa dei peggiori pregiudizi contro Israele. Un pezzo che trasfigura completamente la realtà.
1) Tutto l'articolo è percorso da un patetismo che mira non a far riflettere il lettore, ma soltanto a coinvolgerlo emotivamente in modo che indirizzi la propria empatia verso quelle che senza ombre Fiorletta identifica come le vittime: i poveri, disarmati, indifesi arabi palestinesi.
2) Anche gli errori grossolani abbondano. Il più evidente è l'affermazione che il muro sarebbe composto da "una successione di pannelli alti dieci metri, che corrono oltre 500 chilometri". E' semplicemente falso: la barriera di sicurezza diventa autentico muro difensivo soltanto in brevi tratti; il più importante è a Betlemme, laddove è necessario per impedire che i cecchini palestinesi uccidano comodamente, dalle finestre delle case, i civili ebrei pochi metri più in là (come succedeva prima dell'edificazione dei pannelli di cemento, naturalmente nel silenzio tombale di tutti i pacifinti nostrani). In più, quei pochi metri di muro davanti a Betlemme hanno impedito l'ingresso di terroristi suicidi che avevano davanti a sé soltanto 5 km e poi erano a Gerusalemme dove si facevano esplodere.
3) Il "muro" (che, come detto, non è un autentico muro se non per brevi tratti) sarebbe "simbolo dell'oppressione". Qui il rovesciamento della realtà è completo, dal momento che la barriera è stata edificata per evitare il più possibile infiltrazioni terroristiche dal West Bank in Israele, quelle stesse infiltrazioni che nel corso della Seconda Intifada provocavano ogni due giorni sanguinosi attentati in ristoranti, discoteche, piazze e mercati israeliani. E ha avuto successo, perché gli attentati suicidi in Israele si sono molto ridotti, da allora... ma forse i morti ebrei israeliani non interessano al Fatto.
4) Il "muro", secondo il Fatto, "innesta la violenza che attraversa queste terre": ecco il tipico rovesciamento della concatenazione causa-effetto, modo argomentativo ampiamente utilizzato da tutta la peggiore propaganda anti-israeliana e antisemita, a partire da quella di Michele Giorgio sul Manifesto.
5) Verso il finale dell'articolo assistiamo a un sempre più spaventoso crescendo con cui l'autrice si schiera esplicitamente con il terrorismo palestinese, che definisce "resistenza". Il suo auspicio finale è che "Gerusalemme" sia "davvero liberata" dalle milizie del terrorismo palestinese.
Marco Travaglio
Un'ultima riflessione su Marco Travaglio e Furio Colombo. All'inizio della carriera, il primo, sotto l'insegnamento di Indro Montanelli, era appassionatamente dalla parte di Israele. Dato che continua dichiararsi tale, se ne deve dedurre che la carica di vice-direttore del Fatto è in realtà una finzione. Fra le mansioni di un vice-direttore vi è anche la linea del giornale. Delle due l'una: Travaglio è passato fra gli odiatori di Israele oppure conta come il due di picche, in più ipocrita quando dice di amare Israele.
Furio Colombo
In quanto a Furio Colombo, la cui simpatia per Israele è fuori discussione, ci chiediamo come non si senta a disagio - visto il suo passato - nel tenere una rubrica con i lettori su un giornale che pubblica con regolarità schifezze come l'articolo che segue. Colombo non è un giovane cronista in carriera, potrebbe concedersi il lusso di avere la schiena diritta, dimettendosi da un giornale come il Fatto. Non crediamo che l'emolumento che riceve giustifichi la sua rimanenza. Gli ricordiamo il precedemte di Fausto Coen, quando era direttore di Paese Sera, quotidiano romano fiancheggiatore del PCI. Quando gli venne imposto di fare un titolo contro Israele alla fine della guerra dei sei giorni, si rifiutò, dando le dimissioni. Altra figura di giornalista, altra schiena.
Ecco l'articolo:
Il sanguinoso attacco terroristico al ristorante Sbarro (Gerusalemme), durante la Seconda Intifada
Un nuovo muro di settecento chilometri divide israeliani e palestinesi. Ma contro la barriera di cemento alta dieci metri si sfogano i colori della pace e della speranza di giovani e artisti arrivati da tutto il mondo.
"Questa strada non è più una strada. Non ci passa nessuno. Ci sono solo io e la mia pompa di benzina", le parole di Mohammed risuonano nel vuoto e nella luce di una sera al tramonto, resa livida dai fari di una torretta di controllo. Non ci sono persone, non ci sono macchine, questa via si è trasformata, è uno spazio nuovo, un "non luogo" creato dal muro di divisione eretto tra Israele e i territori palestinesi in Cisgiordania. Nei dintorni non c'è praticamente nulla, i resti di negozi e ristoranti sono rintracciabili solo da vecchie insegne che testimoniano una vita chiusa in fretta, alla stessa velocità con cui è stata tirata su la famosa barriera di sicurezza o altrettanto noto muro della vergogna, dipende solo dalla prospettiva da cui si guarda.
Siamo a Betlemme, di fronte a una successione di pannelli alti dieci metri, che corrono oltre 500 chilometri tracciando confini, definendo spazi, levando il flato. La barriera di separazione, che ultimata dovrebbe superare i 700 chilometri, è un insieme di cemento, filo spinato e fossati, intervallati da porte e corridoi, controllati dall'esercito israeliano per regolare l'accesso e l'uscita di persone da una zona all'altra. Il governo Sharon ha approvato e iniziato la costruzione di questa barriera nella primavera del 2002, nonostante nel 2004 la Corte internazionale di giustizia dell'Aia l'abbia dichiarata illegale, i lavori proseguono.
"Il muro è ovunque, ti entra nella testa", racconta Fathi, maestro alle elementari in un villaggio della West Bank. "La scuola dove insegno è praticamente circondata, apri la finestra e lo trovi a trenta centimetri dal tuo viso. I bambini lo disegnano in continuazione, fa parte della loro vita ormai". E se i più piccoli lo disegnano sui quaderni gli adulti ci disegnano sopra.
Arabi palestinesi protestano con violenza di fronte alla barriera di sicurezza edificata da Israele, al 90% con reticolati
Si srotola come una tela
Andare a piedi da Betlemme a Gerusalemme, il percorso raccontato dalle foto di Maia Galli, vuol dire seguire il tracciato del muro, che si srotola come una tela, lunga, bianca, a disposizione. Ma se non può essere bucata, squarciata come in note opere di arte contemporanea, poiché di cemento armato, può essere riempita di scritte, dipinti e graffiti. Sono diversi gli artisti che hanno preso parte a questa enorme installazione involontaria, a partire da Banksy, passando per Wisam Salsaa, fino ad arrivare all'italiano Blu, lasciando all'arte la capacità di esprimersi contro l'oppressione, come raccontato nel libro del giornalista William Perry, Contro il muro. L'arte della resistenza in Palestina.
Ma ancora di più sono le scritte e la testimonianza della gente comune che con il muro ci convive, delle numerose persone, provenienti dalle parti più disparate del mondo, che hanno sentito la necessità di dire qualcosa, lasciando un segno e rendendolo, paradossalmente, un simbolo di libertà. Questa barriera di cemento infatti oggi può essere letta, racconta una storia e lo fa da diversi punti di vista, in lingue differenti e attraverso disegni che si trasformano in opere d'arte. Camminare tra queste due città, in un percorso antico di secoli, vuol dire farlo guardando in alto, perché se questa costruzione mette angoscia e fa paura, esercita anche un'incredibile attrazione attraverso la narrazione fatta da coloro che hanno percorso lo stesso tratto di strada. Tante le scritte che richiamano alla pace, alla fine del conflitto, ci sono colombe, bambini, una grande scritta in rosa dice che "la pace è più conveniente". Moltissimi i disegni che vogliono andare oltre l'ostacolo, bambine che lanciano cuori, palloncini che ti sollevano oltre il muro, mongolfiere che si innalzano sull'ostilità, occhi che tentano di vedere cosa c'è al di là. Due bambine con le trecce sono rappresentate chine e con le mani nell'interstizio tra i pannelli nel tentativo di aprire un varco. Il muro infatti non è frontiera da passare, è invalicabile, taglia a metà case, vite, nega ogni quotidianità. E' barriera fisica e culturale su cui si innesta la violenza che attraversa queste terre.
Un simbolo collettivo
Se in questi giorni, dopo gli attentati di Parigi, si è fatta fatica ad andare oltre le facili dicotomie che contrappongono buoni e cattivi, religioni giuste e sbagliate, noi e loro, di fronte a questa barriera diventa impossibile. Si vuole cancellare qualunque forma di comunicazione e ristabilire facili ruoli: il muro taglia, definisce, semplifica, dicotomizza, nega il dialogo. Lo stesso percorso che facciamo è tortuoso e in alcuni tratti si può proseguire solo in fila indiana, non c'è spazio per due persone che possano camminare vicine, la realtà fisica e quella simbolica si compenetrano costantemente. Eppure attraverso le opere fotografate una forma di comunicazione ha trovato spazio, il muro è diventato uno spazio di riappropriazione simbolica, un luogo fisico e ideale in cui si esprime il dolore collettivo, la rivendicazione e il diritto alla libertà.
Tra i disegni che segnano il tragitto c'è una Statua della libertà che piange mentre tra le braccia tiene un bambino, una sorta di Pietà contemporanea. Le lacrime della statua, simbolo condiviso in buona parte del mondo occidentale e non solo, parlano in modo esplicito della violazione e negazione di un bene prezioso quale è la libertà, mentre il bambino di spalle, esanime, non è solo la violazione condivisa del diritto all'infanzia, è anche un simbolo conosciuto in tutto il Medio oriente. E Handala, personaggio uscito dalla matita dell'artista palestinese Naji al-Ali, ucciso in un attentato a Londra nel 1987.
Non mancano ovviamente scritte esplicite contro Israele, inviti alla lotta e alla resistenza. Il muro è lungo e la storia di queste terre lo è altrettanto, sarebbe sciocco descriverlo solo come un messaggio di pace, è una lunga narrazione di sofferenza e riendicazioni.
Ma le frasi e i disegni sulla libertà sono la maggior parte lungo questo tratto e sembrano andare oltre il conflitto in questione, o meglio è facile pensare che le scritte che leggiamo possono essere adatte a qualunque dei numerosi muri ancora esistenti sul pianeta, eretti tutti dopo la creazione del più noto muro di Berlino, a dimostrazione che la contemporaneità ancora assomiglia al suo pssato. Eppure l'abbattimento della barriera che divideva la Germania è raccontato come un momento di passaggio importante di giustizia e civilità del nostro presente, dimenticando con imbarazzante disinvoltura le morti di chi tenta di attraversare quelle esistenti ancora oggi, basti pensare al muro che separa il Messico dagli Stati Uniti in funzione anti immigrazione.
Il crollo del confine di cemento tra Palestina e Israele resta per ora difficilmente immaginabile ma è rappresentato, in una sorta di metacomunicazione viva, sul muro stesso. Vi è infatti un disegno molto grande in cui si vedono i pannelli che formano la barriera a terra, ridotti in pezzi, incrinati e che lasciano finalmente intravedere una Gerusaleme, stavolta davvero liberata, disegnata nei miniimi particolari su cui si leva una colomba ma soprattutto una scala che va oltre le nuvole. Anche se abbassando lo sguardo, una scritta in fondo, in italiano, si augura "che la libertà non sia solo sognata con il naso all'insù ma riconosciuta negli occhi dei tuoi fratelli".
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