Riprendiamo da REPUBBLICA - AFFARI e FINANZA di oggi, 26/01/2015, a pag. 14, con il titolo "Off-shore nel Mediterraneo: Israele vince la sfida per l'autonomia energetica", l'analisi di Filippo Santelli.
Filippo Santelli
Il giacimento di gas naturale off-shore di Tamar, nel Mediterraneo
Il boia dell'Isis in mano non tiene il coltello ma la pistola di una pompa di benzina. Tra i manifesti all'entrata del teatro Habima diTel Aviv è quello che spiega meglio cosa significa per Israele non dover più importare petrolio.
"Fuel Choices", al suo secondo convegno, è il programma del governo che vuole spingere il trasporto alternativo, gas, biodiesel elettrico, al 30% entro il 2020 e al 60 entro il 2025. «Non possiamo dipendere dalle scelte dei sauditi», dice il responsabile Eyal Rosner. Sul tavolo 350 milioni di dollari per finanziare start-up del settore: in due anni ne sono nate 150.
La nuova indipendenza parte dal metano: 900 miliardi di metri cubi sul fondo del Mediterraneo. Il bacino di Tamar ha cominciato a pompare nel 2013, Leviathan parte nel 2018. Bastano per 50 anni di consumi interni e avanzano per l'export. Tocca al governo decidere come gestire l'abbondanza tra mille polemiche. Sul monopolio di Delek, campione locale, e degli alleati americani di Noble: di recente l'esecutivo ha aperto a altri operatori, tra cui Edison. E sull'utilizzo delle royalty, a regime oltre 5 miliardi di euro l'anno, che molti volevano incanalate nell'economia nazionale: «Rischieremmo una iperinflazione», risponde il ministro dell'Energia Silvan Shalom.
Finiranno in un fondo sovrano che le investirà all'estero. Si è litigato pure sulla quota da concedere all'export, poi fissata al 40%. Trovare compratori però si rivela difficile. Ci sono lettere d'intento con Palestina, Giordania e Egitto, ma i governi locali prendono tempo. Così lo scorso dicembre Shalom è arrivato a Roma per offrire il metano all'Europa, via Italia, attraverso una condotta da 5 miliardi di euro che Bruxelles dovrebbe finanziare.
Ma la prima opzione resta vendere agli Stati vicini. Il mercato interno, in ogni caso, è servito. Il gas, con cui oggi Israele alimenta il 42% della produzione elettrica, dovrebbe salire al 65 entro il 2020. Un altro 25% verrà dal carbone, importato da Polonia e Australia, amici fidati. Con le rinnovabili, la cui fetta dovrebbe arrivare al 10%, ecco l'indipendenza.
Sull'innovazione verde il Paese sta concentrando ricerca e capitali: un dollaro pubblico per ogni dollaro privato. «Rispetto alle start-up software abbiamo bisogno di investimenti maggiori e più pazienti», dice Eli Rozinsky, fondatore di Evr Motors. La sua turbina eolica ultraleggera è quasi pronta. Lo sviluppo lo sta completando all'interno di Horizon, l'incubatore green-tech creato dal gruppo israeliano Rotem e dalla francese Alstom. Nel parco industriale si sperimentano le nuove tecnologie. Enstorage, spinoff dell'università di Tel Aviv partecipato da Siemens, sta testando una mini unità di batterie a idrogeno per immagazzinare energia.
A fianco svetta la paraboladi Heliofocus. Servono occhiali scuri: la luce riflessa dagli specchi raggiunge i mille gradi, usata per produrre vapore. È il solare termico, efficienza al 40%, ben sopra il fotovoltaico. La società ha raccolto 50 milioni di dollari da lsrael Corporation e dall'utility cinese Sanhua. E in Cina sta installando le prime tre parabole. Sul mercato interno la quota delle rinnovabili resta minima l'obiettivo del 10% entro il 2020 è la metà di quello europeo e non e detto che venga raggiunto, dall'attuale 2%.
La strategia del governo è sbilanciata sul metano: i nuovi giacimenti hanno permesso di tagliare del 15% le tariffe elettriche, e le rinnovabili rischiano di finire fuori mercato. Però Eran Miller nel parco fotovoltaico del kibbutz Ketura, mostra la sua Ecoppia: con il cellulare le spazzole rotanti si mettono in moto, scorrendo lungo i pannelli solari e rimuovendo la polvere del deserto. «Pulendoli ogni notte, si evita la perdita di efficienza. I mercati? Luoghi aridi, come il Cile o il centro Asia». Non Israele.
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