IC 7 - Il commento di Stefano Magni
Dal 18 al 24 gennaio 2015
Eventi improvvisi stanno cambiando il volto della Penisola Arabica: l’Iran sta emergendo come unico vincitore sul campo
Prima di tutto, l’Iran ha vinto nello Yemen, settore tutt’altro che periferico della guerra al terrorismo, culla del clan Bin Laden, punto di origine della grande cellula di Al Qaeda della Penisola Arabica che è stata la prima a rivendicare la strage di Parigi. Lo Yemen era considerato, finora, come l’unico esperimento riuscito di transizione pacifica dopo una primavera araba. La ribellione del 2011 contro il presidente Saleh non si era conclusa con la deposizione violenta, l’uccisione o la fuga del tiranno, ma con la sua sostituzione concordata con un altro uomo di regime, Abd Rabbuh Mansur Hadi. Lungi dal ripristinare l’ordine, Hadi ha lasciato crescere (volutamente o no, è difficile capirlo fino in fondo) la minaccia di Al Qaeda, cooperando con gli Usa per colpirne le cellule più in vista, permettendo i raid dei droni americani sul suo spazio aereo, ma non facendo abbastanza per sradicare il fenomeno terrorista.
Nel frattempo, però, dal 2011 in avanti, con il sostegno dell’Iran cresceva, nella provincia settentrionale di Saada, l’esercito ribelle sciita, quello degli Houti, che devono il nome al loro originario comandante Hussein al Houti. Si tratta di un movimento armato ideologicamente simile agli Hezbollah, il loro motto recita testualmente: “Dio è grande, morte all’America, morte a Israele!” Gli sciiti hanno accusato Hadi di aver favorito Al Qaeda e di aver condotto una politica faziosa a favore dei sunniti, negando loro ogni autonomia. Benché avessero ritagliato sul proprio territorio una sorta di indipendenza di fatto, gli Houti ora hanno puntato decisamente in alto. A settembre erano già entrati in armi nella capitale Sanaa. Questa settimana hanno rinnovato l’attacco e hanno portato a termine un vero colpo di Stato. Il governo e il presidente Hadi hanno dovuto rassegnare le dimissioni sotto la minaccia delle armi.
Contemporaneamente al golpe yemenita, moriva il novantenne re saudita Abdullah, lasciando il trono all’anziano (e gravemente malato) fratello Salman. Il nuovo sovrano dovrà governare cedendo il controllo al suo successore designato, il principe Muqrin, un uomo salvo per un vero miracolo dopo un tentativo di assassinio da parte di Al Qaeda dello Yemen. Il nuovo corso saudita è già stato reso noto nelle dichiarazioni del sovrano: linea dura contro i nemici (sono chiamati così, senza fraintendimenti) iraniani e jihadisti. Una guerra contro l’Isis, contro Assad e soprattutto contro l’Iran. Ma anche su questo fronte, l’Iran parte già in vantaggio. Sostenendo il golpe nello Yemen, ha infatti dimostrato di saper controllare molto bene le minoranze sciite negli stati sunniti.
Ci sono altre due bombe ad orologeria che potrebbe far saltare: la maggioranza sciita in Bahrein e la stessa minoranza sciita che abita sulle coste del Golfo dell’Arabia Saudita. Senza contare che il nuovo re saudita dovrà combattere, non contro uno, ma contro due nemici in Iraq: il Nord dominato dalle milizie dell’Isis, che puntano a far scoppiare una rivoluzione dei sunniti contro la sua monarchia e il Sud dominato dalle milizie sciite, sostenute sempre dall’Iran anche in chiave anti-saudita. Mai Khomeini si sarebbe sognato di metter piede sull’altra sponda del Golfo Persico, Khamenei c’è riuscito, senza combattere contro l’Iraq, ma, anzi, intervenendo dalla parte del governo di Baghdad col pretesto di combattere contro un comune nemico (l’Isis).
Il sovrano saudita dovrà combattere anche contro due nemici in Siria, divisa fra un Est dominato dal Califfato e un Ovest nelle mani dell’esercito regolare, anche qui grazie al sostegno di Hezbollah e dell’Iran. La presenza iraniana in Siria è tanto forte che nell’ultimo raid aereo israeliano a Quneitra (per eliminare Jihad Mughniyeh, leader Hezbollah) fra i sei uccisi c’era anche un ufficiale della Guardia Rivoluzionaria, Mohammad Allah Daddi. La presenza iraniana fra le file dei regolari e delle milizie filo-Assad non è mai stata un mistero sin dal 2012. Ma con l’indebolirsi del regime, con lo sfasciarsi del suo esercito, il ruolo di Hezbollah e dei suoi controllori iraniani è diventato determinante.
Come è stata possibile un’avanzata così impetuosa dell’Iran, in così poco tempo? La risposta si può trovare solo nel consenso passivo delle diplomazie occidentali. E si riassume con la frase sfuggita a John Kerry nel corso dello scorso vertice anti-Isis a Bruxelles, quella in cui il segretario di Stato Usa definiva come “positivi” i raid aerei iraniani in Iraq contro le milizie del Califfato. La minaccia costituita dall’Isis fa sì che gli Stati Uniti, e a seguire gli alleati europei, chiudano un occhio sulle attività espansioniste dell’Iran e spiega anche la sostanziale mancanza di reazioni al golpe nello Yemen.
Hassan Rouhani dipinge con colori di pace la corsa al nucleare dell'Iran, ma la sostanza non cambia
Non solo: il presidente Rouhani esercita ancora un potente fascino sulle diplomazie occidentali, perché continua a presentarsi come un leader riformatore che può cambiare il sistema dall’interno. Non lo ha fatto finora, non ci sono segni tangibili che lo possa fare in futuro, ma comunque ispira una strana fiducia collettiva, quasi come Gorbachev nell’ultimo quinquennio dell’Urss. Questo fascino contribuisce a spiegare come mai l’Iran fosse un paria internazionale fino al 2013, mentre ora Kerry (dagli Usa) e Federica Mogherini (dall’Ue) auspicano di normalizzare le relazioni con Teheran. E questo nonostante non sia stata trovata ancora alcuna soluzione pacifica per fermare il programma nucleare iraniano, nonostante i negoziati di Ginevra siano falliti e non si sappia ancora quanto sia avanzata la corsa iraniana all’arma atomica (l’obiettivo non dichiarato, ma ben intuibile, di quel programma).
A questi fattori si aggiunga anche l’indiscutibile abilità iraniana a promuovere la propria causa all’estero. Un esempio eclatante di questa opera occulta sta emergendo in Argentina, proprio in questi giorni, con il caso di Alberto Nisman, l’avvocato che è stato “suicidato”, mentre stava indagando sui presunti accordi fra la presidente Kirchner e il regime iraniano: un salvacondotto per i terroristi Hezbollah, autori dell’attentato contro il centro ebraico di Buenos Aires del 1994, in cambio di nuovi accordi petroliferi. Non ci sono ancora certezze sul caso, siamo ancora nel regno delle ipotesi, ma non stupirebbe nessuno se dovesse rivelarsi lo scandalo per quel che è: la diplomazia segreta iraniana conta su numerosi appoggi all’estero (anche in Italia) ed ha ottimi strumenti economici per fare pressione.
Il problema è che si rischia sempre di dimenticare che, nel mirino dell’Iran e del suo programma atomico, c’è Israele. Ed è proprio lo Stato ebraico l’unico ostacolo alla sua avanzata, diplomatica e militare. Ma invece di schierarsi con il suo unico alleato democratico mediorientale, l’amministrazione Obama lo percepisce tutt’al più come una seccatura. Seccatura nei confronti della diplomazia iraniana, prima di tutto.
Non è un caso che proprio su Israele e Iran sia iniziato il primo braccio di ferro del 2015 fra repubblicani e democratici. Il nuovo Congresso (a maggioranza repubblicana) ha promosso nuove sanzioni contro Teheran e la risposta di Obama è stata niente meno che una minaccia di veto. Il Congresso ha poi invitato il premier Benjamin Netanyahu a parlare in aula, il prossimo mese di marzo, ma Obama ha già annunciato che non lo riceverà. E’ Netanyahu, il vero “guastafeste” della luna di miele fra Obama e Teheran. Perché osa farsi portavoce dell’interesse di Israele a sopravvivere.
Stefano Magni