Ecco il carro esposto davanti a Palazzo Reale di Torino, definito "pagliacciata" e "baraccone" dal soprintendente alla belle arti Luca Rinaldi
IC ha riportato ieri http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=4&sez=120&id=56924 la polemica sorta dopo che il soprintendente alla belle arti di Torino ,Luca Rinaldi,aveva definito un "baraccone", una "pagliacciata" l'esposizione di un carro merci eguale a quelli che avevano trasportato gli ebrei nei campi di sterminio, messo davanti a Palazzo Reale dove si svolge una mostra dedicata a Primo Levi. La protesta è stata forte e unanime, per cui Rinaldi ha fatto marcia indietro, una mossa del tutto insufficiente, quelle due parole non possono essere archiviate impunemente.
Riprendiamo dalla cronaca della STAMPA di oggi, 24/01/2015, a pag. 41, l'intervista di Niccolò Zancan a Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah.
C'è una frase sulla quale vale la pena meditare, soprattutto oggi, eccola:
...arrivammo a Monaco di Baviera. La Croce Rossa Internazionale ci diede un piatto di minestra, lavarono i carri con gli idranti. Tutti vedevano questi treni che attraversavano l'Europa, ma nessuno faceva niente... ».
Un pensiero alla totale indifferenza della Croce Rossa...'nessuno faceva niente'.. eppure la Croce Rossa era un organismo internazionale, ma non mosse mai un dito. Ricordiamolo quando oggi tutte le organizzazioni internazionali ignorano quanto sia fondamentale per Israele la parola "sicurezza".
Ecco l'intervista:
Piero Terracina
Piero Terracina è un testimone della Storia. È uno degli ultimi venti sopravvissuti ai lager ancora in vita in Italia. Lui e la sua famiglia erano riusciti a scampare ai rastrellamenti nel ghetto ebraico di Roma. Si erano rifugiati e stavano pregando, quando due delatori fascisti portarono le SS a bussare anche a quella porta: «Era la sera del 17 maggio 1944. Stavamo recitando le preghiere della Pasqua ebraica. Ci dissero di prendere tutto quello che avevamo. Sapevano perfettamente che saremmo andati a morire. Erano assassini ed erano anche ladri». Quella notte - con i genitori, due fratelli, una sorella, lo zio e il nonno - fu caricato su un vagone simile a quello che oggi è simbolicamente esposto in piazza Castello, davanti alla mostra dedicata a Primo Levi. Era un vagone chiuso dall'esterno. Diretto ad Auschwitz.
Signor Terracina, cosa ricorda della deportazione?
«Io credo che la parola calvario non basti per spiegare. Su quel vagone eravamo 64 persone. La sete faceva perdere la testa. Era già primavera inoltrata, incominciava a fare caldo. I bambini piangevano e invocavano acqua ad ogni stazione».
Quante fermate, prima dell'arrivo?
«Due. La prima ad Ora, in provincia di Bolzano. Ci dissero di fare i nostri bisogni sulle banchine. In tutto eravamo 600 persone. Mio nonno non ce la faceva a piegarsi sulle ginocchia...».
La seconda fermata?
«Dopo altri due giorni di viaggio indicibili, in mezzo alle nostre lordure, con l'angoscia dei genitori che non potevano alleviare le sofferenze dei bambini, arrivammo a Monaco di Baviera. La Croce Rossa Internazionale ci diede un piatto di minestra, lavarono i carri con gli idranti. Tutti vedevano questi treni che attraversavano l'Europa, ma nessuno faceva niente... ».
Qual è la prima immagine del campo di sterminio?
«Le scintille che uscivano dalle ciminiere dei forni crematori come tante stelle cadenti. Non capivamo... Era il massacro del popolo ebraico».
Lei e la sua famiglia?
«Ci allinearono subito in file diverse. Mio padre salutava con la mano, mia madre mi diede la benedizione alla maniera ebraica. Non li rividi mai più. Cosi come i miei fratelli e mia sorella. L'ottanta per cento dei deportati passava immediatamente per le camera a gas. Il tempo medio di sopravvivenza degli altri era tre mesi».
Lei resistette fino al 27 gennaio 1945.
«Sono sopravvissuto per caso. Nessun destino. Era tutto violenza e morte. La morte era sempre fra noi. Durante gli appelli, in cui dovevamo restare impalati in mezzo alla neve. Durante le punizioni. Quando ci bastonavano senza motivo. Quando ci obbligavano a guardare le impiccagioni».
Lei dove era stato rinchiuso?
«Nelle baracche del campo D. Era separato da un altro campo con filo spinato e corrente ad alta tensione. Dall'altra parte c'erano famiglie che avevano conservato gli abiti e i capelli. C'erano tanti bambini, molti dei quali nati proprio in quel recinto. Facevano musica, ogni tanto. E io pensavo che dove c'erano bambini potesse esserci futuro».
E invece?
«La notte del 2 agosto del '44 li abbiamo sentiti urlare e piangere. I cani abbaiavano, la confusione durò due ore. Alle 4,30 del mattino diedi un'occhiata dall'altra parte del filo spinato: non c'era più nessuno. Solo un silenzio innaturale. Un silenzio doloroso e agghiacciante. Quello era il blocco degli zingari - dei nomadi, dei rom - ed erano stati tutti assassinati. Quel giorno i forni crematori furono accesi alla massima potenza».
Cosa pensa delle polemiche sull'opportunità di tenere questo vagone simbolico qui, in piazza Castello, per tutto il tempo della mostra?
«Che fastidio dà? Che problemi crea? Penso che sia una polemica inopportuna e sbagliata. La memoria va coltivata ogni giorno».
Cosa ricorda della giornata del 27 gennaio 1945?
«Quando arrivarono i soldati sovietici a liberarci non ci fu neanche una scena di giubilo. Solo silenzio. Un silenzio totale».
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante