Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 23/01/2015, a pag. 27, con il titolo " 'Il vagone di Primo Levi è un baraccone': a Torino tutti contro il soprintendente", la cronaca di Paolo Griseri; da REPUBBLICA - TORINO, a pag. II, con il titolo "La comunità ebraica: 'Quel treno è un inciampo metaforico per pensare' ", l'articolo di Vera Schiavazzi; segue un commento di Informazione Corretta alle parole del soprintendente ai Beni artistici di Torino, Luca Rinaldi, riportate sulla Repubblica e sulla Stampa.
A destra: il vagone esposto in Piazza Castello a Torino
Sia La Repubblica che La Stampa riportano le dichiarazioni del soprintendente ai Beni artistici di Torino, Luca Rinaldi, secondo cui il vagone esposto in Piazza Castello, a Torino, sarebbe "un baraccone" e "una pagliacciata". Rinaldi prova a giustificare le sue ignobili parole, sostenendo di essere "figlio di un partigiano", come se questa fosse patente sufficiente a scagionarlo. E aggiunge, peggiorando ulteriormente la propria posizione: "Senza polemiche nessuno avrebbe parlato di Levi".
La stessa ANPI ha preso le distanze dalle folli dichiarazioni di Rinaldi, pur essendo il primo responsabile del Museo Diffuso della Resistenza, quello stesso museo che pochi mesi fa ha inaugurato una mostra scandalosa sui profughi palestinesi, dove la responsabilità veniva attribuita a Israele, persino per la strage di Sabra e Shatila !
Primo Levi
Ecco gli articoli:
LA REPUBBLICA - Paolo Griseri: " 'Il vagone di Primo Levi è un baraccone': a Torino tutti contro il soprintendente
Paolo Griseri Luca Rinaldi
Rimuovete quel vagone, è «una pagliacciata ». Anzi, peggio: «un baraccone». Peccato che il vagone ferroviario in questione, un vecchio vagone degli anni Quaranta, sia uno di quelli che venivano usati dai nazisti per deportare gli ebrei ad Auschwitz. E che sia stato simbolicamente sistemato nel cuore di Torino, in piazza Castello, di fronte alla mostra su Primo Levi inaugurata a settant’anni dalla liberazione dei campi di sterminio. Ma il soprintendente ai Beni architettonici del Piemonte, Luca Rinaldi, non vuole sentire ragioni. E in un’intervista al fulmicotone a Repubblica Torino spara a zero: «Piazza Castello è la piazza più prestigiosa della città, vincolata», e, quel che più conta, «sottoposta al parere dei miei uffici ». E il parere è negativo perché il vagone della memoria «turba la prospettiva della facciata juvarriana del palazzo». Ma, il valore simbolico? Qui il soprintendente ha perso i freni: «Volete il vagone? Andate al Museo ferroviario ». «Allora perché non ricostruire la torretta per le guardie del lager?». E via ironizzando.
Era molto difficile che l’incredibile intemerata passasse inosservata. E infatti ieri mattina ha iniziato di buonora a collezionare condanne e richieste di ritrattazione. Il sindaco Piero Fassino ha chiesto che il funzionario «riveda la sua posizione» ricordando che «quello che il dottor Rinaldi definisce “baraccone” è il simbolo di quei treni piombati che hanno portato a morire 6 milioni di persone e viene esposto, per il periodo della mostra dedicata a Primo Levi, per ricordare a tutti quel terribile sterminio». Nel primo pomeriggio il ministro Dario Franceschini ha dato del burocrate al suo soprintendente scrivendo in una nota che «il significato simbolico e morale della presenza in piazza Castello di un vagone piombato è superiore mille volte a qualsiasi valutazione burocratica». Associazioni partigiane, Comitati per la Resistenza, politici locali, parlamentari, la stessa Comunità ebraica torinese, hanno condannato sconcertati la clamorosa presa di posizione del funzionario. Che ora, inevitabilmente, rischia il posto. Ieri dal ministero è giunta infatti la conferma che nei prossimi giorni arriveranno a Torino gli ispettori di Franceschini per vederci chiaro. Il soprintendente ha infatti imposto, nel suo provvedimento, che il vagone rimanga di fronte all’ingresso della mostra per due settimane e che poi, il 3 febbraio, venga rimosso.
La mostra invece rimarrà aperta fino al 6 aprile. Per modificare il provvedimento ci sono due strade: o il soprintendente cambia idea o la partita viene presa in carico direttamente dalla Direzione generale del Ministero che potrebbe d’autorità cassare la decisione del funzionario. Sommerso dal putiferio delle reazioni, ieri pomeriggio il soprintendente ha nuovamente dichiarato sull’argomento. Per dirsi «assolutamente d’accordo con il ministro Franceschini », e sciorinare una serie di particolari biografici che attesterebbero la sua sincera fede antifascista: «Mio padre era vice comandante di battaglione delle Brigate Garibaldi sulle colline astigiane» e addirittura «a Trieste sono stato nel Comitato di gestione del Museo della Risiera di San Sabba». Quanto alla vicenda del vagone, la decisone di rimuoverlo dopo quindici giorni sarebbe stata presa «d’accordo con la Fondazione Levi». Le dichiarazioni di Fabio Levi, direttore della Fondazione, sono un po’ diverse: «Non intendo creare polemiche. Davamo per scontato che il vagone restasse lì per tutta la durata della mostra».
Inutilmente in queste ore a Torino molti ricordano le fiere da strapaese, non certamente in tono con la faccia di Juvarra, che si sono svolte recentemente nella stessa piazza. Il vero motivo del nein di Rinaldi è probabilmente da ricercare altrove e non sembra aver a che fare né con la storia del Novecento, né col purismo architettonico. Ma con una frase sfuggita al funzionario nell’infausta intervista: «Sono stato informato solo tre giorni fa dell’iniziativa. E infatti l’assessore mi ha chiesto scusa». Un delitto di lesa maestà?
LA REPUBBLICA - TORINO - Vera Schiavazzi: "La comunità ebraica: 'Quel treno è un inciampo metaforico per pensare' "
Vera Schiavazzi Claudia De Benedetti
«Ci sono luoghi, come Borgo San Dalmazzo, dove i vagoni merci come quello di piazza Castello vengono considerati monumenti: ne sono stati messi tre fuori dal piccolo memoriale che ricorda i deportati. E anche a Torino lo scopo del vagone è proprio quello di creare disagio e inciampo metaforico a chi viene a vedere la mostra». Per Beppe Segre, presidente della Comunità Ebraica di Torino, il vagone che sta davanti a Palazzo Madama e fa da simbolico ingresso alla mostra sui “Mondi di Primo Levi” dovrebbe restare fino alla fine, prevista il 6 aprile, e non andarsene dopo 15 giorni, come invece vuole il sovrintendente Rinaldi.
«Non voglio entrare nel merito delle scadenze — dice Segre — ma certo mi stupisce e mi delude che il vagone venga considerato ingombrante e del tutto estraneo all’estetica della piazza. È un simbolo che vuole far riflettere chi passa sulla deportazione di Levi e di migliaia di altre persone italiane, uomini e donne, vecchi e bambini. Li vuole far riflettere su un progetto dio odio e di follia teso alla conquista del mondo e all’annullamento degli ebrei, degli oppositori, dei diversi». «Sono contento che da Torino e da tutto il paese si siano alzate molte voci a difesa del vagone davanti alla mostra, una per tutti quella del ministro della Cultura — dice il rabbino capo torinese, Ariel Di Porto — Mi aveva colpito la durezza contro quel simbolo, come qualcosa che poteva disturbare l’armonia della piazza, mentre invece è stato messo a ricordare quanto la Shoah ha disturbato e distrutto milioni di vite. Non sono un esperto di architettura, ma credo che salvo cause di forza maggiore dovrebbe restare fino alla fine».
«Non posso credere che il vagone “disturbi”, specialmente se si pensa a quanto la Shoah abbia devastato la vita di sei milioni di ebrei — dice Claudia De Benedetti, membro del Congresso Ebraico Europeo — E credo che non ci debba essere alcun dubbio sul fatto che la proibizione di lasciarlo dove si trova oltre quindici giorni debba essere rivista». «Forse la mostra ha già raggiunto il suo obiettivo, anche se involontariamente. L’ingombro del vagone ha un significato che va al di là delle valutazioni critiche, di ordine urbanistico ed estetico, che alcuni hanno avanzato. Indica che la memoria medesima è qualcosa che si mette di traverso alla vita di chiunque.
Ne rompe l’apparente continuità e prevedibilità — conclude Claudio Vercelli, ricercatore di storia al Salvemini — Rispetto all’idea, quietistica e falsamente rassicurante, di un racconto del passato condiviso, sopravanza l’elemento dell’inquietudine. Il vagone dei deportati, quindi, ma anche il vagone che “precipita” sulla piazza centrale di una città, sul suo specchio architettonico, sul suo ordine e sul suo decoro, per interferire — per l’appunto — con la falsa prevedibilità della dimensione quotidiana».
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