Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 14/01/2015, a pag. 6-7, con il titolo "L'altra Parigi che non è Charlie: 'Il minuto di silenzio non ci riguarda' ", la cronaca di Alberto Mattioli.
Alberto Mattioli
Tra i musulmani di Parigi molti credono che Charlie Hebdo "se la sia cercata". Alcuni festeggiano.
L’altra Francia, quella che non è Charlie, ha la faccia di Abdel, 13 anni, studente al «collège», la scuola media: «Il minuto di silenzio di giovedì? Sì, sono stato zitto perché la prof insisteva. Ma se fosse stato per me non l’avrei fatto».
Saint-Denis, banlieue Nord di Parigi, a poche centinaia di metri dalla basilica dove generazioni di Re cristianissimi attendono la resurrezione. Abdel, musulmano, origini algerine ormai remote, è vestito da ragazzo di banlieue (qui gli idoli sono i rapper, dunque braghe larghe, felpa con cappuccio e cappellino), parla un francese gergale quasi incomprensibile e dice cose ancora più sconcertanti: «Massì, alla fine questo Charlie un po’ se l’è cercata, no? Non si deve prendere in giro il Profeta, è un’offesa per tutti i musulmani». Ma, a parte il fatto che Charlie è il nome del giornale e non di una persona, i tuoi compagni la pensano come te? «Ouais, sì, qualcuno sì. Altri no. Loro erano contenti di fare il minuto di silenzio». Anche i musulmani? «Alcuni sì. Ma loro sono “koufars”», miscredenti. I tuoi genitori domenica sono andati a manifestare? «No, perché?».
Il fallimento della scuola
Eccola qui, la Francia che non scende in piazza per la tolleranza, quella convinta che il problema della libertà d’espressione è che ce n’è troppa. A cominciare proprio dalle aule scolastiche dove, secondo la pedagogia della Terza Repubblica tuttora in auge, l’insegnante era il «missionario laico» incaricato di sottrarre i giovani all’oscurantismo dei curati. Adesso i giornali raccontano fra lo scandalizzato e il sorpreso il fallimento della «scuola repubblicana». Il primo ministro, Manuel Valls, l’ha detto: «Nel mio Paese, non voglio che ci siano dei giovani che fanno la “V” di vittoria dopo quel che è successo».
Al ministero dell’Educazione nazionale sfumano: si tratta di «casi isolati» in «70 scuole su 64 mila». Abbastanza, però, perché la ministra, Najat Vallaud Belkacem, immigrata nata in Marocco, lanci una serie di consultazioni e prometta provvedimenti. Intanto si scopre che venerdì a Châteauroux un liceale quindicenne è stato pestato dai suoi compagni: aveva postato su Facebook troppi «Je suis Charlie». E su «Le Monde» un collettivo di professori del liceo «Le Corbusier» di Aubervilliers pubblica una testimonianza dal titolo terribile: «Come abbiamo potuto lasciare che i nostri alunni diventassero degli assassini?».
Il problema delle prigioni
Dietro l’«Union sacrée» dei partiti (ma senza il Front national, cioè quello più votato) e i quattro milioni di persone alle magnifiche «manif» di domenica c’è una Francia che, come una brutta Italia nemmeno troppo antica, non sta né con lo Stato né con i terroristi. Il problema delle prigioni, per esempio, è serio. Lì il minuto di silenzio è stato punteggiato di grida di «Allah akbar!», Allah è grande. Sui 68 mila detenuti quelli di cultura o religione musulmana sono dal 30 al 50%, percentuale che nelle carceri delle grandi città sale fino al 70. Il ministero della Giustizia stima che i detenuti «duri», quelli che fanno proselitismo, siano circa 150. Però è in galera che Chérif Kouachi e Amedy Koulibaly si sono radicalizzati. I predicatori ufficiali scarseggiano, così il campo resta libero a sedicenti «imam» autoproclamati e fanatici.
Lo scontro su Internet
Nemmeno su Internet c’è unanimità. Gli hashtag #JesuisKouachi e #JesuisCoulibaly impazzano sui social network. Qui bisogna distinguere fra chi applaude ai loro crimini e chi, semplicemente, teme che l’unanimismo possa essere strumentalizzato da un potere detestato a prescindere. Sotto l’hashtag #JenesuispasCharlie, non sono Charlie, si ritrovano anarchici, complottisti alla Grillo e anche chi non ha apprezzato che al corteo di Parigi sfilassero rappresentanti di governi che, a casa loro, i giornalisti li spediscono in galera.
È una critica «da sinistra» che coincide curiosamente con quella di ultradestra di Jean-Marie Le Pen, che l’ha detto esplicitamente: «Io non sono Charlie». Del resto, gli Charlie veri lo paragonavano regolarmente alla sostanza resa celebre da Cambronne. L’umorista antisemita Dieudonné si è poi distinto dichiarando su Facebook che lui si sente «Charlie Coulibaly». La Procura l’ha indagato per apologia di terrorismo. Ma se deve intervenire la Giustizia per difendere la ragione, o semplicemente per far stare zitto chi l’ha persa, c’è qualcosa che non funziona.
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