In questa pagina di IC riprendiamo i commenti più signicativi apparsi sui quotidiano di oggi 10/01/2015.
Il Foglio-Carlo Panella. " I mandanti in piazza "
Carlo Panella
Chérif e Said Kouachi non erano terroristi e non è terrorismo la strage della redazione di Charlie Hebdo. Non è una provocazione: se non si affronta questo nodo tutt'altro che formale, non si inquadrano i fatti e men che meno si imposta una reazione efficace. I Kouachi hanno eseguito una condanna a morte contro i "blasfemi" redattori di Charlie Hebdo non solo chiesta a gran voce da centinaia di migliaia di manifestanti musulmani in tutte le città dell'islam dal 2006 in poi, ma anche prevista dai codici penali di non pochi stati islamici. Per questo, non solo per la sua atrocità, questa strage segna un salto di qualità nella vicenda jihadista. Il massacro cerca e trova consenso in una parte minoritaria, ma consistente, della umma, quantomeno tra le centinaia di migliaia di manifestanti scesi nelle piazze di tutte le città musulmane nel 2006 per chiedere la morte degli autori delle vignette del danese Jyllands-Posten, ripubblicate da Charlie Hebdo. Manifestazioni ovunque cruente e non solo a parole. A Gaza, il jihad islamico e altri gruppi minacciarono di "trasformare in bersagli" i francesi, danesi e norvegesi presenti nella Striscia. Ovunque ci furono attacchi e incendi di ambasciate occidentali e molti morti. In Nigeria, Boko Haram fa i suoi primi passi e promuove enormi manifestazioni, bruciando alcune chiese e trucidando decine di cristiani. Ma è il contesto a essere ancora più inquietante: una blasfemia contro il Profeta oggi è punita con condanne a morte in Pakistan, Iran, Kuwait, dai talebani e nel Califfato. In altri paesi è punita con l'ergastolo, o lunghe pene detentive e durissime punizioni corporali. Inoltre, poiché il blasfemo spesso è dichiarato "apostata", è punito con la morte in ben 10 paesi musulmani - cosa dimenticata in quasi tutti i commenti dei media occidentali. Asia Bibi, quattro anni fa, è stata condannata a morte dal tribunale di Nankana, in Pakistan, proprio perché - falsamente - accusata di avere pronunciato parole blasfeme contro il Profeta durante una lite con alcune donne vicino a un pozzo d'acqua. C'è una sottovalutazione colpevole da parte dell'occidente non solo di un caso umano disperato (le sue condizioni di detenzione sono miserevoli), ma anche di un nodo shariatico che dovrebbe essere discriminante - ma non lo è - nei rapporti tra il Pakistan e l'occidente, tra islam e occidente. Dunque, per un jihadista e per molti musulmani e stati islamici, uccidere un blasfemo (come i redattori di Charlie Hebdo) non è gesto di terrorismo, ma significa applicare la sharia più classica, in vigore anche in paesi alleati dell'occidente. E' eloquente la coincidenza tra la strage di "blasfemi" di Charlie Hebdo e la notizia delle prime 50 frustate (sulle mille comminate) inflitte in pubblico davanti alla moschea al Jafali di Gedda, in Arabia Saudita, al blogger Raif Badawi, condannato a dieci anni di reclusione, per avere postato "frasi irriverenti nei confronti del Profeta". Re Abdullah, alleato "moderato", dell'occidente contro il jihadismo, ha rifiutato la grazia chiesta da innumerevoli petizioni.
Le regole omogenee della umma
Sbaglia dunque chi pensa che la strage di Charlie Hebdo abbia lo scopo precipuo di incutere terrore nelle città occidentali (obiettivo esplicito di tutti gli altri attentati precedenti in occidente, dalle Twin Towers a Atocha sino a Sydney). Il suo fine è diverso: dimostrare alla umma che i jihadisti applicano con determinazione la sharia e la pena di morte per i blasfemi chiesta da centinaia di migliaia di musulmani. Proprio la raccolta del consenso da parte dello Stato islamico da mesi caratterizza l'abnorme evoluzione del fenomeno jihadista. Sviluppo che erroneamente molti misurano solo sul parametro di un movimento che "si è fatto stato", che è un dato preoccupante, ma solo quantitativo. Il Califfato di al Baghdadi ha fatto compiere al jihadismo un salto qualitativo, cercando - e ottenendo - quel "consenso", sia pure minoritario, sia pure intrecciato col più feroce autoritarismo, che è caratteristica principe dei moderni stati autoritari: lo Stato islamico applica l'identica sharia che vige in Arabia Saudita e in molti paesi islamici, solo con più ferocia e vigore. E non si pensi che la schiavitù delle bimbe cristiane e yazide desti scandalo in tutta la umma: è prevista e regolamentata non solo dalla sharia, ma anche da molti versetti del Corano. Ed è praticata in tutte le monarchie del Golfo.
Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Errori di valutazione e allarmi a vuoto, Bucata la rete degli 007"
Guido Olimpio
A colpire sono stati terroristi noti, dall'America allo Yemen. I loro precedenti dovevano dire molto. E invece hanno beffato l'intelligence. Tutto questo è già capitato. Con il nigeriano delle mutande bomba, il jihadista Merah, gli attentatori di Boston. Parigi temeva l'Isis, ma la sorpresa è arrivata da molto più vicino. Il nemico era in casa. Per trovare risposte ai buchi dell'intelligence bisogna ripartire da alcuni punti fermi e da altri meno chiari che accompagnano la vita da terroristi dei fratelli Chérif e Said Kouachi. Il primo filone riguarda i movimenti di Said. Fonti americane e yemenite hanno confermato che il militante ha compiuto uno o più viaggi nella penisola arabica dove è entrato in contatto con Al Qaeda. Di certo si trovava nello Yemen nel 2011 e c'è rimasto per alcuni mesi: in quel periodo ha seguito corsi d'addestramento alle armi, quindi ha partecipato a combattimenti contro gli sciiti. Infine avrebbe incontrato Anwar al Awlaki, l'imam americano di origine yemenita che è stato l'ispiratore-reclutatore di dozzine di occidentall. È possibile che i qaedisti lo abbiano trasformato in un terrorista in sonno. Voci aggiungono che gli yemeniti avrebbero informato Parigi sulla presenza di Said e altri «studenti» poi deportati. Ma quella segnalazione non ha seguito: Said, una volta a casa — dicono — fa il bravo. Una vita in apparenza lontana da quella che lo ha portato in carcere, lo ha legato a Djamel Beghal, il maestro di Jihad noto anche a Amedi Coulibaly. Il viaggio in Yemen dovrebbe far scattare la bandierina rossa. Al Qaeda nella Penisola arabica tra i suoi nemici ha spesso indicato — anche di recente — i giornalisti di Charlie fiebdo. Inoltre ha auspicato operazioni che ricordino le incursioni dei sacri guerrieri "del Profeta. Mosse per demoralizzare, scorrerie messe in atto dai gruppi che si ispirano a Bin Laden. A Lahore, a Mumbai, a Kabul, sparano, occupano edifici e prendono ostaggi. Proprio come a Parigi. Sono i «piccoli attacchi» invocati da Osama e rielaborati da llyas Kashmiri, il capo dell'Annata fantasma. È lui a studiare un piano per punire il giornale danese delle vignette blasfeme, azione poi sospesa. I Kouachi sembrano riprendere il modus operandi. Si coordinano, anche se in modo confuso, con Coulibaly e la sua compagna, Hayat Boumedienne, per l'ultima battaglia. E dicono di far parte di al Qaeda nello Yemen. Cherif lo ripete aggiungendo — forse esagerando — che è stato l'imam al Awlaki a finanziare la strage. Quando, però? Visto che il leader è stato incenerito da un drone nel settembre 20u. Ieri sera, poi, un portavoce anonimo della fazione afferma: «Siamo stati noi a ordinare l'assalto in difesa dell'onore di Maometto, abbiano ritardato la rivendicazione per motivi di sicurezza». Coulibaly, al contrario, si presenta come Isis. Gli esperti ipotizzano: i qaedisti, superati per fama dal Califfo rivale, hanno voluto rilanciarsi con un attentato clamoroso. Forse si tratta solo di parole, ma anche elementi sui quali lavorare. E in queste ore lo fanno anche gli americani. Washinghton aveva inserito i fratelli nella no fly list perché li considerava pericolosi. Ma è servito a poco. Del resto quegli elenchi contengono i nominativi di centinaia di migliaia di persone. Serve altro. Il numero di persone da seguire è gigantesco: 5 mila nella sola Francia. Non ci sono le risorse mentre sono troppi gli allarmi. L'ultimo lo danno il 6 gennaio gli algerini che avvertono Parigi sul pericolo di un attentato. Si ripetono così errori di valutazione, come a Boston. Se è successo di nuovo, vuole dire che siamo impotenti davanti a un esercito che non è un esercito, ma una moltiplicazione di fronti urbani e lontani? C'è qualcosa -- delle nostre libertà — a cui dobbiamo rinunciare per provare a difenderci con più forza? In questa battaglia globale ognuno ha scelto la sua strada. Gli Usa hanno usato molti sistemi. Dai rapimenti alle prigioni speciali, hanno permesso alla Nsa di frugare nelle vite di tutti. Hanno fatto ricorso agli agenti provocatori per incastrare criminali potenziali. I cittadini hanno pagato il prezzo, i nemici solo in parte. Inevitabile, visto che il terrorismo è fluido, organizzato e disorganizzato, a seconda delle opportunità. Conta più l'idea che la preparazione. Si formano cellule familiari, così diventa difficile penetrarle. Gli europei si sono barcamenati per combinare diritti e sicurezza. La diga ha tenuto, ma ora è minacciata dalle schegge jihadiste. Chi è del mestiere suggerisce di tornare al fattore umano, all'infiltrato. Invece della rete del pescatore che tutto piglia, serve la mira del cacciatore che punti la preda. Sempre che possa scovarla in tempo
Corriere della Sera-Piero Ostellino: " Il buonismo che ci acceca"
Piero Ostellino
II miserevole spettacolo che l'Italia politica e giornalistica sta dando su
lla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni —di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l'Islam, auspichiamo dl fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n'è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilizzazione, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo. Ci si è lamentati che le forze dell'ordine francesi non fossero riuscite a catturare rapidamente i due lombrosiani criminali artefici della strage parigina. Ignoriamo, o fingiamo di ignorare, che ciò era dovuto al fatto che il cosiddetto estremismo islamico naviga nel mare delle collusioni e delle complicità con l'islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato. Che moderato non è e che sl è profondamente radicato nel continente con l'immigrazione. È stupefacente che a non capirlo sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal olessico familiare» comunista. L'ignoranza che, da noi, circonda il caso francese rivela l'incapacità culturale, non solo della sinistra, di capire che cosa è stata, in Occidente, l'uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno; incapacità di capire che si accompagna a quella di prendere atto, per converso, che l'Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne. Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all'opposto, riveliamo dl essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica. Il miserevole spettacolo che diamo è anche la conseguenza dell'insipienza culturale di una sinistra che — perduto il rapporto organico con l'Unione sovietica, spazzata via dalle «dure repliche della storia» — non sa, o non vuole, darsi una identità La nostra insipienza politica è generata dall'incultura. Non abbiamo perso l'occasione, anche questa volta, di mostrare d'essere un Paese da Terzo Mondo al quale, come non bastasse, un Papa pauperista detta la linea fra l'ottuso entusiasmo di fedeli che mostrano di credere ben poco nel messaggio di Cristo e molto più di essere i sudditi di una gerarchia che assomiglia a una corporazione o a un partito. Avevo definito l'Islam, in un precedente articolo, una teocrazia, a;.;. ungendo che qualsiasi tentativo, da parte nostra, di trovare con esso una qualche forma di conciliazione si sarebbe rivelato, a causa della contraddizione logica e storica, illusorio. Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi. È inutile nascondersi dietro il dito di un universalismo di facciata che non regge alla prova della logica e della storia. Siamo anche ml- gliorl, avendo noi conosciuto, e praticato da alcuni secoli — a differenza di loro che sono, e vogliono restare, una teocrazia — la separazione della religione dalla politica. Pur con tutti i nostri limiti, pratichiamo l'insegnamento dell'llluminismo e siamo entrati da tempo nella Modernità, mentre loro ne sono ancora fuori e non danno neppure segno di volerci entrare. Viviamo in regimi che praticano la tolleranza nei con-frond di chi non la pensa allo stesso nostro modo o professa una religione diversa dalla nostra; siamo società che, per dirla con Isaiah Berlin, professano e rispettano la «pluralità di valori». Chi non la pensa come noi, non è considerato e trattato come un nemico. Loro ci considerano «infedeli» rispetto alle loro convinzioni e alla loro prassi; un nemico da sterminare come hanno fatto nei confronti della redazione del settimanale satirico parigino il cui torto era di aver fatto dell'ironia sul loro credo. Per noi, gli islamici sono gente che là pensa in un modo diverso. Da figlio del Cristianesimo e del liberalismo mi chiedo come si possano uccidere uomini e donne in nome del proprio dio. 11 criminale che torna sui suoi passi per finire un agente ferito e a terra è una bestia, con tutto il rispetto per gli animali. Le nostre reciproche culture sono inconciliabili ed è persino ridicolo auspicare che ci si possa incontrare almeno a metà strada. Dovremo convivere, sapendo che ci vorrebbero colo- nizzare e dominare attraverso quel «cavallo di Troia» che è l'immigrazione e che noi stessi incoraggiamo. Lo ripeto. Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro. Sempre che vogliano convivere pacificamente. Cosa di cui dubito.
Il Giornale-Luigi Mascheroni: "Le lacrime di coccodrillo del compagno Vauro "
Vauro
Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta “Jesuischarlie”, lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie. Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera, in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette “provocatorie”», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo, ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.
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