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La Repubblica Rassegna Stampa
07.01.2015 Egitto: in carcere tre giornalisti di Al Jazeera
Giornalisti ? Diciamo miliziani propagandisti, piuttosto

Testata: La Repubblica
Data: 07 gennaio 2015
Pagina: 17
Autore: Mohamed Fadel Fahmy
Titolo: «'Noi di Al Jazeera un anno in cella per aver fatto i giornalisti'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/01/2015, a pag. 17, con il titolo "'Noi di Al Jazeera un anno in cella per aver fatto i giornalisti'", la testimonianza di Mohamed Fadel Fahmy, uno dei tre giornalisti di Al Jazeera incarcerati da oltre un anno in Egitto.

I tre giornalisti di Al Jazeera arrestati in Egitto sono miliziani legati alla Fratellanza musulmana e al Qatar, e come tali vanno giudicati. Loro e Al Jazeera avevano l'obiettivo di destabilizzare i regimi arabi pragmatici, come Egitto e Arabia Saudita, per farli scivolare verso la peggiore delle alternative: la deriva islamista. Una deriva che l'Egitto ha già sperimentato con il governo di Morsi  dei Fratelli musulmani, ora fuorilegge.

Ecco l'articolo:


I tre giornalisti-miliziani di Al Jazeera

Pubblichiamola testimonianza di Mohamed Fadel Fahmy, giornalista egiziano-canadese a capo della redazione di "Al Jazeera English "al Cairo, in carcere da oltre un anno insieme a Peter Greste e Baher Mohamed

Assieme a due colleghi di AI Jazeera English, ho passato l'ultimo anno in carcere: siamo accusati di appartenere a un gruppo terroristico che cospira contro lo stato egiziano riportando "notizie false'. In realtà stavamo semplicemente facendo il nostro lavoro di giornalisti.

Il primo gennaio Peter Greste, Baher Mohamed e io abbiamo appreso che la richiesta di riesame del processo che avevamo avanzato è stata accolta. Avevamo sperato nel rilascio su cauzione fino al nuovo processo, che richiederà mesi di attesa, ma abbiamo accettato la decisione del tribunale. È la conferma ufficiale che il primo processo a nostro carico era inficiato da gravi errori e che le condanne emesse lo scorso giugno erano sbagliate. Siamo stati pedine di un gioco geopolitico che nulla ha a che fare con il nostro operato.


Abdel Fattah Al Sisi

ll governo del presidente Abdel Fattah al Sisi ha scelto di considerarci attori di un progetto politico iniquo. In realtà la nostra condizione è più simile a quella di ostaggi. Nel settembre 2013 assunsi la direzione della redazione di Al Jazeera English al Cairo. In quel mese un tribunale egiziano aveva vietato le trasmissioni del canale televisivo in lingua araba Al Jazeera Mubasher Misr, l'affiliata egiziana dell'emittente del Qatar, con l'accusa di essere a favore dei Fratelli Musulmani e di rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale. Nonostante questo precedente accettai la sfida di guidare Al Jazeera English, perché ero certo della professionalità dei suoi giornalisti e credevo che il governo egiziano avrebbe tenuto conto delle differenze tra i due canali. Fin dal primo giorno mi premurai di chiarire la distinzione in ogni comunicato e tutte le interviste.

Tutto il nostro lavoro di redazione era svolto autonomamente da quello di AlJazeera Mubasher Misr. I servizi realizzati dal mio team per Al Jazeera English erano equilibrati, imparziali e basati su fonti attendibili. Il 25 dicembre 2013 il governo egiziano definì la Fratellanza Musulmana un'organizzazione terrorista. Lo stesso fecero l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Quattro giorni dopo fummo arrestati. Le autorità egiziane avevano deciso di ignorare la differenza tra il canale in lingua inglese e quello in lingua araba. L'accusa al processo non ha prodotto comunque prove convincenti contro di noi, anche perché in realtà il processo era contro il Qatar: noi tre giornalisti siamo rimasti coinvolti nella guerra fredda che vede schierati da una parte Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein e dall'altra il Qatar e i suoi alleati, tra cui la Turchia.

Non è un segreto che il Qatar sostenesse politicamente e finanziariamente l'ex presidente Mohamed Morsi e i Fratelli musulmani. Nel momento in cui milioni di egiziani con l'appoggio dell'esercito posero fine al governo della Fratellanza Musulmana, il 3 luglio 2013, il Qatar ritirò dal Paese per rappresaglia 10 miliardi di dollari di investimenti. Subentrarono i sauditi, cui ben presto si unirono Kuwait e Emirati Arabi Uniti, impegnandosi con 12 miliardi di dollari a sostegno del governo egiziano ad interim.

Nel novembre scorso la coalizione guidata dai sauditi si è adoperata per la riconciliazione tra Egitto e Qatar: Doha ha acconsentito a non intromettersi più negli affari interni dell'Egitto. La chiusura di Al Jazeera Mubasher Misr rientrava nel prezzo. La decisione del Qatar è stata occasione di giubilo per milioni di egiziani, nonché per noi giornalisti dietro le sbarre. I giornali egiziani e del Qatar hanno citato le dichiarazioni di funzionari di entrambi i Paesi che annunciavano la grazia per noi in pochi giorni. Ma oggi ci prepariamo ad affrontare un nuovo processo senza alcuna garanzia di una giusta sentenza.

Greste e io abbiamo cittadinanza straniera e abbiamo chiesto di essere estradati rispettivamente in Australia e in Canad. Il mio avvocato, Am al Gooney, mi prospetta la possibilità di estradizione in Canada in base a un decreto presidenziale che autorizza i cittadini stranieri a essere processati e a scontare la pena all'estero. Ma che idea possono farsi i cittadini canadesi e australiani di questa guerra su un terreno giuridico che è terra di nessuno? Al Sisi ci sta usando per continuare a diffamare Al Jazeera presentandola come una macchina di propaganda per il Qatar? Il Qatar sfrutta il nostro caso per danneggiare la reputazione dell'Egitto? Finché resteremo in cella saremo delle pedine.

La nostra situazione rientra in un quadro più ampio. L'isteria della "guerra al terrorismo" si è trasformata in parte in una guerra contro i giornalisti. Fare informazione nella mutevole geopolitica del Medio Oriente oggi è come camminare su un terreno minato. Ci sono casi di giornalisti rapiti e uccisi, perfino decapitati. Altri sono stati feriti o sono in carcere. Io ho riportato un' invalidità permanente per via della frattura della spalla subita durante l'arresto e mai curata.

Vorrei ricordare al Presidente Al Sisi che nella guerra che ha dichiarato al cancro dell'islam politico e alla sua progenie violenta i giornalisti non sono nemici, bensì alleati. Noi divulghiamo la verità sul terrorismo che lui combatte e vuole sconfiggere. (2015 New York Times News Service. Traduzione di Emilia Benghi)

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