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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Il Foglio Rassegna Stampa
07.01.2015 Isis: arrestata l'espansione, l'economia va a rotoli. Speriamo continui
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 07 gennaio 2015
Pagina: 3
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Lo schema Ponzi del Califfato, che dura solo finché conquista»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 07/01/2015, a pag. 3, con il titolo "Lo schema Ponzi del Califfato, che dura solo finché conquista", l'analisi di Daniele Raineri.


Daniele Raineri


Abu Bakr Al Baghdadi

Roma. Negli ultimi giorni si è parlato molto dell’economia dello Stato islamico, vale a dire di quel territorio a cavallo tra Siria e Iraq controllato dal gruppo militare islamista di Abu Bakr al Baghdadi a partire dall’anno scorso. La questione fondamentale è: lo Stato ha un’economia che funziona? Questa nuova creazione territoriale imposta con le armi dall’ala più estrema dell’islam politico ha davvero un’economia reale come gli altri stati? La questione è cruciale perché uno dei primi punti della dottrina di Abu Bakr al Baghdadi è che lo Stato islamico è un vero stato, e non un gruppo armato come gli altri (per esempio: Al Qaida o Hamas) e quindi come tale va trattato – anche se naturalmente è in guerra e quindi non è in una situazione normale. Hanno risposto un articolo sul Washington Post firmato da Liz Sly a dicembre, il Financial Times di ieri con un pezzo di Erika Solomon e il settimanale tedesco Die Zeit, che tre giorni fa ha pubblicato un’inchiesta enorme firmata da dodici giornalisti. Inoltre sullo stesso argomento c’è un paper interessante fatto uscire a ottobre da un think tank di politica estera spagnolo (il titolo è: “How long will Isis last economically?”). Tutti hanno usato fonti sul posto, che restano anonime per ragioni di sicurezza. La risposta è che l’economia dello Stato islamico va male, per ora sta riuscendo a offrire soltanto la finzione di uno stato ai cittadini, i servizi sono scarsi e “non è sostenibile” sul lungo periodo perché funziona come un gigantesco schema Ponzi. Quest’ultima è senz’altro la notizia interessante per uno stato che intende resistere a oltranza. Lo schema truffaldino che ha preso il nome da Charles Ponzi (un immigrato italiano in America), chiamato anche schema piramidale, è quello in cui un primo venditore malizioso (per esempio, e sia perdonata la rozzezza) promette forti guadagni a dieci investitori-vittime a patto che questi reclutino ciascuno altri dieci investitori-vittime. Il primo reclutatore guadagna perché si mette effettivamente in tasca del denaro, e in qualche caso guadagnano anche quelli che vengono immediatamente dopo di lui, ma è chiaro che a un certo punto qualcuno (la maggioranza) ha investito e non vedrà mai più tornare i suoi soldi. Quanto regge? Dipende da quanti nuovi investitori abboccano. Lo Stato islamico si comporta in modo analogo: promette una qualità della vita migliore all’interno dei suoi territori, anche perché abbassa con la forza le tasse e il prezzo di beni essenziali come il cibo e la benzina, ma ci riesce soltanto fino a quando continua a espandersi e a saccheggiare nuovi territori e a imporre nuove estorsioni e riscatti. Se si ferma, se ha una battuta d’arresto militare, se tradisce il suo motto “baqiya wa tatamaddad” (in arabo: restare ed espandersi), perde slancio e deve cominciare a fare i conti con una economia non più di razzia. Per esempio, una delle fonti di guadagno è la richiesta di un riscatto alle famiglie per le migliaia di prigionieri catturati durante le offensive dell’anno scorso. Ma non dura. Ed è a questo punto, secondo le inchieste dei giornali, che cominciano i dolori. Lo Stato islamico in questo momento non riesce a fornire servizi all’altezza dei suoi predecessori – lo stato iracheno e quello siriano. L’energia elettrica non arriva e c’è da arrangiarsi con i generatori a gasolio, gli acquedotti funzionano a singhiozzo e per questo la qualità dell’acqua è tremenda, fino a essere imbevibile, i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati. I servizi civili che funzionano ancora come scuole e ospedali (con le modifiche già note, per esempio nelle materie di studio o nella separazione tra sessi) lo fanno grazie agli stipendi ancora pagati dai governi centrali – su cui però lo Stato islamico esige un prelievo. Questa degli stipendi governativi è una questione che nega l’aspetto più rivoluzionario dello Stato islamico, che è la creazione di una nuova entità politica sulle ceneri di quelle vecchie. E fa cadere uno dei pilastri fondamentali della dottrina rivoluzionaria del Califfato, che è l’eliminazione delle linee di confine tracciate dagli europei Sykes e Picot tra gli stati arabi. Sono considerate un’imposizione artificiale degli infedeli sopra un territorio che dovrebbe essere unito e omogeneo sotto la bandiera con il sigillo del profeta Maometto, e come tali devono essere ignorate. In realtà, come spiega la gente del posto, adesso si viaggia con almeno tre monete in tasca: il dollaro americano come valuta universale, la lira siriana in Siria e quella irachena in Iraq, e certe volte è necessario usarle tutte e tre nel tragitto breve tra Raqqa e Mosul, le due capitali dello Stato islamico. L’adozione annunciata del dirham, moneta coniata dallo stesso Stato islamico, per ora è ancora ferma al piano simbolico. Intanto, i camionisti che entrano a portare beni dentro le città devono pagare una tassa equivalente a 200 dollari per carico. Petrolio inutilizzabile tra un anno L’unica fonte stabile d’incasso è per ora il greggio. Lo Stato islamico ha conquistato territori con pozzi di petrolio e si è organizzato per trasportarlo di contrabbando verso acquirenti in Turchia, Siria e nel Kurdistan, facendo prezzi molto bassi che invogliano il mercato. Ma anche in questo caso le stime d’incasso sono meno fantastiche di quanto si crede in genere: il greggio passa in piccole quantità e attraverso troppe mani, “come in una fila di formiche”, perché viaggia attraverso canali illegali. Il prezzo legale è già basso, figurarsi quindi quello di contrabbando, e in alcuni casi lo Stato islamico deve venderlo all’esterno e poi comprarlo raffinato. Secondo le stime dei tecnici, i nuovi proprietari stanno estraendo male dai pozzi. Tra un anno circa il petrolio comincerà a mescolarsi con l’acqua del sottosuolo e sarà inutilizzabile, a meno che lo Stato islamico non trovi dei consulenti all’altezza. Una nota importante: tutto il traffico di petrolio verso l’esterno non potrebbe funzionare senza la collaborazione di fatto di chi sta appena al di fuori dei confini dello Stato islamico. Soprattutto i curdi, ma anche gli eserciti governativi e gli sciiti. La guerra senza quartiere vista da vicino è un po’ meno feroce.

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