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Applausi a scena vuota Narra un’antica leggenda ebraica che dopo il mancato eppure tremendo sacrificio subìto dal padre Abramo, Isacco si sia meritato una lunga permanenza in Paradiso – a studiare la Torah, peraltro – da cui, racconta il mito, il giovane esce fuori camminando all’incontrario, cioè a testa in giù e gambe levate. Lo stesso destino, per ragioni molto diverse ma forse neanche tanto (perché se togliamo di mezzo il Paradiso in fondo alla storia c’è un trauma dal quale bisogna in qualche modo resuscitare), tocca al protagonista parlante dell’ultimo romanzo di David Grossman, che in italiano s’intitola Applausi a scena vuota mentre in ebraico suona letteralmente Un cavallo entra in un bar, che è l’inizio di una prevedibile storiella. Questo protagonista che cammina a testa in giù si chiama Dova’le (ma perché la scelta di tenere quell’apostrofo che nell’economia della trascrizione in caratteri latini non ha alcun ruolo né suono, e crea soltanto un ricorrente equivoco visivo?), è un cabarettista un po’ da strapazzo, che si esibisce in un teatro di provincia davanti a un poco illustre pubblico. La storia si svolge tutta nel corso della rappresentazione. È a sua volta la rappresentazione di un vissuto che emerge fra una battuta mal riuscita e l’altra, fra uno sberleffo e una smorfia quasi di pianto. La scena – vuota o piena che sia – è tutta per lui, e per gli insulti che la vita gli ha scagliato addosso. Di fatto non c’è narrazione, ma soltanto «esibizione». Da parte del protagonista dello spettacolo, che sembra fare di tutto per risultare spiacevole, scomodo, al limite dell’intollerabile con i suoi sbalzi di umore e recitazione. Ma c’è, nel pubblico, una voce che spiega. Ed è quella di un onorevole giudice che è stato amico d’infanzia di Dovale. Che è stato imperiosamente invitato a questo strano spettacolo, in fondo per fare da mediatore fra i misteri del teatrante e il lettore spaesato. Anche se per parte sua non vede Dovale da molto tempo, per la precisione da un passato remoto in cui erano bambini, e a un campeggio succede che questi debba partire precipitosamente per un funerale… A poco a poco, nella storia compare qualche dettaglio della vicenda che soggiace alla storia. Il monologo diventa scorci di immagini, scene di vita vera e non più finta, su quel palco dove a Dovale prende la mano, tanto da cominciare a farneticare con il gusto di risultare al suo pubblico sempre più irritante, sempre meno comprensibile. È un romanzo strano, quest’ultimo del grande scrittore israeliano. Un romanzo non romanzo che si snoda tutto nel monologo del suo protagonista, interrotto soltanto dal racconto dolente del giudice e dallo sguardo misterioso di una donna – l’altra figura dotata di un seppur vago volto, in mezzo a un pubblico fatto soltanto di nebbia. I grandi temi di Grossman vi si affacciano tutti: l’ossessione della Shoah nella sua totale incomprensibilità, lessicale prima ancora che morale e storica. L’infanzia come emblema della fragilità che tutti ci riguarda. La vita come scena. Per lo più surreale. Perché in fondo ha ragione Dovale quando cammina a testa in giù: il mondo è proprio sottosopra. Elena Loewenthal - Tuttolibri La Stampa |
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