Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 05/01/2015, a pag. 25, con il titolo "La sorpresa è il quartetto di Anat Cohen", la cronaca di Franco Fayenz
Franco Fayenz Anat Cohen
L'edizione invernale di Umbria Jazz ha vinto un'altra volta la sua scommessa - la ventiduesima - con chi, nel 1993, giudicava impossibile il successo di un festival musicale impegnativo nei giorni di Capodanno. Parlano le cifre: sempre esaurite le sale dei 120 concerti con 160 musicisti complessivi, 20mila spettatori paganti e buoni incassi.
Eppure, anche nella stupenda Orvieto si è avvertita l'eco della crisi generale. E nella struttura del festival sarà bene cambiare qualcosa. Hanno prevalso, nel numero espesso nella qualità i musicisti italiani, oggi in grado di reggere qualunque confronto. Ma non è senza significato che pochi degli «scrittori musicali» presenti al festival si siano accorti che le note migliori sono venute dai recital del Brazilian Quartet riunito dalla clarinettista Anat Cohen con Vitor Gonsalves fisarmonica e pianoforte, Nando Duarte chitarra brasiliana a 7 corde e Sergio «Serginho» Krakowski pandeiro (una sorta di tamburello).
Anat, nativa di Tel Aviv, ha 39 anni, è clarinettista e sassofonista meravigliosa, è lontana seguace di Artie Shaw, e in Italia ha rivelato le sue doti proprio fra Perugia e Orvieto. Questa volta si è cimentata al massimo livello con il choro, la musica dell'800 di Rio de Janejro giustamente definita «The New Orleans Jazz of Brazil».
Per dovere di ospitalità va poi citato il più apprezzato degli altri gruppi stranieri, il quintetto A Love Supreme 50 che si è ricordato del cinquantenario del capolavoro assoluto di John Coltrane. Ha suonato in modo eccellente come ci si attendeva da assi quali Joe Lovano, Chris Potter, Lawrence Fields, Cecil McBee e Jonathan Blake, sebbene chi conosca a memoria l'originale abbia avvertito un filo di noia nel sentirlo allungare e ripetere un tantino troppo.
Ed ecco gli italiani da porre sugli scudi. Il pianista e compositore Giovanni Guidi con la sua Rebel Band diretta da Dan Kinzelman ha reso un ottimo tributo alla memoria di Charlie Haden, inarrivabile contrabbassista e direttore di grande impegno. Il trombettista Paolo Fresu ha esaltato la nobile formazione del duo, in cui si è avventurato con Omar Sosa, Daniele Di Bonaventura e Danilo Rea (e altrettanto hanno fatto l'altro illustre trombettista Fabrizio Bosso con Julian Oliver Mazzariello e con Luciano Biondini, nonché i due affiatatissimi Giovanni Guidi e Gianluca Petrella); Bosso ha brillato anche con il suo quartetto.
Ma poi ecco gli straordinari Doctor 3 - Danilo Rea, Enzo Pietropaoli, Fabrizio Sferra - che gli innumerevoli ammiratori scongiurano di non affliggere più con lunghi silenzi. E i Quintorigo con Roberto Gatto che hanno offerto la migliore versione jazzy di Frank Zappa fin qui ascoltata; e Danilo Rea con Massimo Moriconi contrabbasso e Tullio De Piscopo batteria che hanno ricordato Renato Sellar: sarebbe stato ancora presente a Umbria Jazz Winter con il suo pianoforte se la morte non lo avesse raggiunto un mese prima.
Infine: cosa c'è da cambiare nel festival? A nostro avviso, sarebbe preferibile non confinare nell'ultima sera la premiazione-concerto dei vincitori del Top della rivista Musica Jazz; bisognerebbe almeno contenere la formula ripetitiva dei concerti e preoccuparsi della scomparsa dei punti di vendita discografici e dell'intrattenimento al limite della sbracatura di alcune proposte sonore. Tutto qui, ma non è poco.
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