Tirando le somme del 2014 in Medio Oriente
Commento di Mordechai Kedar
(Traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz)
Il 2014 è stato un anno in cui abbiamo assistito al continuo deterioramento del moderno Stato arabo, mentre al contrario è aumentata la popolarità di due vecchie entità politiche. La Siria sta vivendo un lungo e sanguinoso processo di disintegrazione. Assad controlla circa un quarto del paese, tra cui Damasco, parte di Aleppo a Nord, la fascia costiera e le montagne di Ansari in cui vivono gli Alawiti, la sua etnia non-musulmana.
Due nuove entità politiche sono sorte sulle rovine della Siria: un territorio curdo indipendente nel Nord-Est e lo Stato Islamico in circa il 30% del territorio siriano. I curdi hanno un legame stretto con i loro fratelli iracheni e non hanno alcuna intenzione di restare ancora sotto il dominio arabo.
Il futuro dell'Iraq è incerto: da un lato, un sistema politico, in qualche modo stabilizzato, è riuscito a sostituire il Primo Ministro senza troppi scontri, ma d'altra parte, il Paese non è stato in grado di fermare i jihadisti dello Stato Islamico nella loro conquista di un terzo del suo territorio, tra cui Mosul, la seconda città irachena per grandezza, e centro principale della sua industria petrolifera.
Lo Stato Islamico minaccia Baghdad con postazioni avanzate che hanno invaso la periferia della città assediata di Ramadi. A settembre molte regioni irachene si sono dichiarate autonome, per reagire alle disfunzioni del governo centrale. Se questa tendenza dovesse continuare, l'Iraq rischierebbe di diventare una federazione di province autonome, e potrebbe rivelarsi un presagio di ciò che il futuro ha in serbo per gli altri Paesi del Medio Oriente.
Lo Yemen è paralizzato da un regime infettato dal tribalismo e da due entità, armate e anti-governative, che stanno lacerando il Paese: i sunniti di Al Qaeda e gli sciiti Houthi, che a dicembre hanno conquistato la capitale ed sono riusciti a dettare le loro condizioni al Paese.
L’Iran li sta armando e finanziando, rende molto pericoloso lo Stretto di Bab el Mandeb, controllando così il passaggio meridionale per il trasporto internazionale dall'Asia Orientale attraverso l'Oceano Indiano al Mar Rosso, al Canale di Suez, al Mediterraneo e all'Europa.
La Libia continua ad affondare in un bagno di sangue. Negli ultimi quattro anni, iniziati con le grandi speranze della "Primavera Araba", nel Paese sono state uccise più di 100.000 persone, la maggior parte in battaglie e lotte tra milizie tribali e familiari, con il petrolio quale combustibile dei falò della violenza. Lo scorso anno si è verificata una spaccatura sul territorio della Libia, con due coalizioni che stanno fondendosi: una a Tripoli, nella parte occidentale del paese, e l'altra a Bengasi,a Est. La mancanza di un governo centrale efficente apre la porta alle violente organizzazioni islamiche, alcune legate ad Al Qaeda, altre allo Stato Islamico, per controllare le loro enclave.
Lo Stato Islamico è il più grande e importante nuovo fenomeno che si sia verificato in Medio Oriente nel 2014. Anche se l'Organizzazione è nata dieci anni fa in Iraq come Al Qaeda, oggi è una sfida non solo per quest'ultima, ma anche per il Medio Oriente e il mondo intero. Tutti ci rendiamo conto che lo Stato Islamico rappresenta una minaccia diretta allo Stato,e con le sue minacce di sottomettere altri Paesi e creare governi alternativi; inoltre sostiene i jihadisti che utilizzano i media per diffondere la guerra del Jihad in tutto il mondo. Durante la prima metà del 2014 lo Stato Islamico (ISIS) è riuscito a conquistare un terzo sia dell’ Iraq che della Siria, zone scarsamente popolate ma ricche di petrolio.
La Turchia aiuta lo Stato Islamico esportando petrolio verso l’ Europa, fornendo anche supporti logistici.
Il Qatar ha aiutato lo Stato Islamico fino al dicembre del 2014, quando fu obbligato a sospenderne gli aiuti.
I successi dello Stato Islamico sono attribuibili alla sua capacità di seminare terrore, utilizzando video raccapriccianti di decapitazioni, fucilazioni e di lasciare morire di fame decine di migliaia di “eretici”, come ad esempio gli yazidi.
Lo Stato Islamico assorbe nelle sue milizie molti sunniti dalle regioni conquistate in Siria e Iraq, dove approdano anche le migliaia di volontari provenienti da tutto il mondo, musulmani e convertiti all’Islam.
I Jihadisti provengono anche da Paesi occidentali, con l’intento di combattere l’Occidente per costringerlo a seguire le leggi dell’Islam. Il Capo dello Stato Islamico ha adottato il nome di Abu Bakr al Baghdadi e si nomina "Califfo", 90 anni dopo che il Califfato era stato abolito da Ataturk.
Lo Stato Islamico vede se stesso come un’alternativa a tutti gli accordi politici che colonialisti e nazioni 'eretiche' hanno imposto al mondo islamico.
L’ISIS cancella i confini creati dalla Gran Bretagna e dalla Francia, non accetta il diritto internazionale, che sostituisce con la forma più estrema di Shari’a: decapita gli eretici, fustiga i peccatori, vende schiavi al mercato e taglia le mani ai ladri.
Nuovi volontari si uniscono ogni giorno all’ISIS che intende radicarsi sempre di più, mentre minaccia direttamente i Paesi confinanti: Giordania, Libano e Iran. Questo è il motivo per cui l’Iran sta armando e rifornendo la milizia curda, i Peshmerga, nella speranza che possa avere successo contro l’ISIS.
Non poche nazioni, sia arabe che europee, hanno costituito una forza aerea per affrontare l’ ISIS, ma è un errore pensare che attacchi aerei possano distruggere gli eserciti di un Paese così vasto. Solo le forze di terra, casa per casa, cantina per cantina, possono sconfiggere l’ISIS.
In Egitto il governo di al Sisi è riuscito a rafforzarsi nonostante la pubblica ostilità degli Stati Uniti che per lungo tempo, dopo che Morsi fu deposto nel 2013, continuarono a considerarlo come legittimo presidente. La fermezza egiziana, sostenuta economicamente e politicamente dai sauditi e dagli Emirati Arabi Uniti, è riuscita a opporsi agli americani, nonostante l’appoggio aperto del Qatar nei confronti dei Fratelli Musulmani, di Hamas e dell’ISIS.
La stessa risolutezza egiziana, con il sostegno di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, è riuscita a costringere il Qatar a cessare il sostegno al terrorismo, ai Fratelli Musulmani e all’ISIS; a impedire di usare la rete Al Jazeera come strumento di propaganda per i Fratelli Musulmani e le organizzazioni terroristiche che avevano creato. Il Qatar continuerà ad obbedire alle imposizioni saudite? Solo il tempo lo dirà. L’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati dovranno tenere gli occhi ben aperti.
L'Arabia Saudita è anche riuscita a infliggere molti danni all’Iran producendo più petrolio di quello che farebbe normalmente, riducendo così il prezzo sul mercato mondiale. Quando hanno visto l’Occidente inchinarsi all’intransigenza iraniana e alleggerire le sanzioni economiche imposte per ridurre alla fame lo stato degli Ayatollah nell’acquisizione della bomba atomica, i sauditi hanno agito da soli.
I prossimi mesi potrebbero dimostrare ancora una volta che l’impostazione saudita è più efficace del modo americano di affrontare i problemi.
La Tunisia è l’unico Stato al mondo arabo in cui possiamo riporre qualche speranza. E’ il Paese che quattro anni fa iniziava la “primavera araba” e dopo un periodo di tentativi ed errori - dopo aver sperimentato l’Islam politico - è ritornato al suo modo di vivere liberale, moderno e laico, dimostrando che una Nazione può affrontare i conflitti interni in modo legale, senza violenza (a differenza della Siria), senza spargimento di sangue (a differenza della Libia), senza rivoluzioni che producono dittatori (a differenza dell’Egitto).
La Tunisia tuttavia deve affrontare immediatamente e con decisione i gruppi jihadisti che si sono stabiliti nella sua regione meridionale e che ricevono combattenti, armi e denaro dalle vicine Libia e Algeria.
I palestinesi si stanno rivolgendo al palcoscenico internazionale, cercando con tutte le forze di ottenere il riconoscimento di un loro Stato. Il mondo arabo, distratto da problemi come quello dell’ISIS, non ha né il tempo né la pazienza di affrontare la questione palestinese, spingendo l’Anp a rivolgersi al mondo per il suo riconoscimento. I politici europei si danno un gran da fare per riconoscere uno Stato palestinese al fine di compiacere gli elettori musulmani.
Israele può trovarsi di fronte a uno Stato palestinese – destinato senza dubbio a diventare uno Stato di Hamas - solo perché alcuni politici europei spaventati dalla propria alta disoccupazione, votano per riconoscere quello Stato sulle colline di Giudea e Samaria, il luogo di nascita del popolo ebraico.
Il mondo è ancora ossessionato dall’esistenza di una nazione palestinese, creatasi da poco, anche in parte a causa dell’idea di alcuni politici israeliani. Gerusalemme verrebbe considerata parte dello Stato palestinese, solo al fine di sradicare la capitale dall’identità ebraica, sapendo bene che senza Gerusalemme, l’intero Stato cesserebbe di esistere.
Il mondo deve risvegliarsi, capire che se Israele soccombe all’Islam, molto presto toccherà all’Europa.
In sintesi: il 2014 è stato un anno difficile per Israele, per l’Europa e per il resto del mondo. Se l’Iran otterrà armi nucleari, l’ISIS crescerà, l’America non avrà più il primo posto che ha tenuto fino a pochi anni fa, l’Europa continuerà ad affondare sotto le ondate di immigrazione islamica che stanno trasformando la cultura europea in qualcosa che è ben lontano dai valori liberali, dall’apertura alla modernità e dalla democrazia.
Queste sfide potranno diventare solo più grandi, le crisi approfondirsi, le controversie diffondersi. Le sfide che lo Stato di Israele deve affrontare stanno diventando sempre più complesse. Il crollo della Siria ha ridotto la minaccia a Israele, ma altre minacce sono all’orizzonte: da un lato l’Iran e l’ISIS stanno guadagnando forza, dall’altro l’Europa e l’America stanno diventando sempre più deboli. La leadership israeliana che presto sarà eletta, dovrà guardare con attenzione a tutti questi problemi.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi