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Informazione Corretta Rassegna Stampa
28.12.2014 Usa: il dopo Chuck Hagel
Analisi di Stefano Magni

Testata: Informazione Corretta
Data: 28 dicembre 2014
Pagina: 1
Autore: Stefano Magni
Titolo: «Usa: il dopo Chuck Hagel»

Usa: il dopo Chuck Hagel
Analisi di Stefano Magni


Stefano Magni                       Chuck Hagel

Gli Stati Uniti finiscono il loro anno più difficile senza un segretario alla Difesa. Chuck Hagel ha già annunciato le dimissioni, dopo appena due anni di mandato. Visto che non c’è software che possa funzionare senza hardware, considerano che la politica estera è il software e quella di difesa è l’hardware, se ne deduce che dal prossimo segretario alla Difesa sapremo quale sarà la politica estera statunitense nei prossimi due anni.
E se questa sarà più o meno favorevole a Israele.
E’ difficile fare un bilancio sull’eredità di Hagel. Difficile è stabilire perché se ne sia andato, così come difficilissimo era capire le ragioni della sua nomina.
Lui, veterano del Vietnam, repubblicano vecchio stampo, realista e isolazionista, è stato scelto dal presidente più progressista della storia recente americana. Ora se ne è andato, ufficialmente di sua sponte e senza lasciare malumori, di fatto, stando a quasi tutte le fonti interne al Pentagono e alla Casa Bianca, è stato licenziato sui due piedi per divergenze politiche, strategiche e persino caratteriali con l’inquilino della Casa Bianca.
Quando Hagel venne nominato fu uno shock per Israele. Il repubblicano scelto da Obama era infatti noto come un senatore contrario alla guerra in Iraq, favorevole all’appeasement con l’Iran, tanto da essere conosciuto come un esponente della “lobby iraniana”.
Le sue battute in Senato contro la lobby sionista e l’influenza di Israele facevano pensare ad una svolta anti-israeliana nella politica estera di Obama, controbilanciata solo da un John Kerry ancora visto come un amico (tiepido) dello Stato ebraico.
Paradossalmente, come in tanti altri casi, nella politica reale le due parti si sono rovesciate: Kerry si è distinto per la sua implacabile critica al governo Netanyahu, mentre Hagel ha giocato il ruolo dell’amico e alleato fedele. Tanto è vero che, alla sua partenza dal Pentagono, chi lo ha rimpianto per primo è stato il ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon.
E ora in Israele sono punto e a capo: se un amico se ne è andato, chi arriverà adesso?
La domanda è mal posta. Vediamo perché.
La politica americana è strana fino a un certo punto, anche se riserva sempre sorprese. La personalità che conta è quella del presidente e della sua ristretta cerchia di collaboratori. Questo vale, soprattutto, quando il presidente ha una forte ideologia, come nel caso di Obama. Gli altri uomini del governo federale sono degli esecutori della sua politica.
Hagel e Kerry giocano ruoli precisi che rispondono all’interesse nazionale e alla politica estera così come è concepita da Obama. L’alleanza fra Usa e Israele è una costante della politica di difesa e sicurezza degli Usa, chiunque arrivi al vertice del Pentagono la deve rispettare.
Salvo rivolgimenti epocali, anche il prossimo inquilino della Difesa, sarà un buon alleato di Gerusalemme. Quanto alla parte di politica estera decisa da Obama, essa è basata su un sostanziale isolazionismo militare e attivismo diplomatico. Hagel era la figura giusta per lanciare il giusto messaggio dal Pentagono: stare fuori dai conflitti, ridurre ovunque la presenza militare statunitense, che Obama, nella sua visione della politica estera, considera come la principale causa di rancore del mondo contro gli Usa.
Kerry è altrettanto azzeccato come inquilino di Foggy Bottom: liberal, pacifista, attento ai diritti umani e ai nuovi diritti sociali, estremamente loquace e politicamente molto impegnato. Qualcosa, in questo tandem, non ha funzionato. Non tanto perché i due uomini non fossero all’altezza, ma perché la politica estera era evidentemente sbilanciata.
E’ infatti impossibile pensare di essere interventisti nella politica e isolazionisti in campo militare. La prima grave dimostrazione di disfunzionalità è stata in Siria. Obama e l’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton, avevano lanciato un messaggio chiarissimo: le armi chimiche costituiscono una “linea rossa”, passata la quale scatta l’intervento militare. La linea rossa è stata passata dal regime di Assad nell’estate del 2013. Poco importa chi sia il colpevole, chi abbia realmente impiegato ordigni a gas contro civili disarmati: per Obama, Kerry e Hagel, quei gas li ha lanciati Assad, questa era la loro “verità” annunciata urbi et orbi. E da qui doveva seguire l’annunciato attacco.
Invece no. L’attacco non c’è stato. A fermarlo non sono stati né Putin, né Papa Francesco, ma gli alleati degli Usa che si sono dichiarati contrari e poi lo stesso Congresso che non ha espresso alcuna maggioranza. Era talmente evidente l’opposizione dei legislatori che Obama ha deciso addirittura di annullare l’operazione senza neppure passare dal voto.
Ma questo vuol dire solo che, a fronte di una politica estremamente assertiva, non era sul tavolo alcuna reale opzione militare. E che l’amministrazione Obama non aveva neppure compiuto la necessaria preparazione diplomatica di un intervento, non si era coordinata con gli alleati europei, né si era assicurata l’appoggio di una maggioranza al Congresso.
Dopo la figuraccia siriana è seguita, a ruota, quella in Ucraina. Anche in quel caso, l’amministrazione Obama ha espresso tutta la sua vicinanza ai rivoltosi del Maidan, a Kiev, contro il presidente filo-russo Yanukovich. A insurrezione in corso, a risultati ancora incerti, gli Usa hanno gettato la loro spada sul piatto della bilancia dell’Ucraina filo-europea, con visite ufficiali al Maidan di delegazioni politiche, promesse di aiuto e infine con il pronto riconoscimento di un governo ancora provvisorio e sortito da una rivolta di piazza, non da un’elezione regolare.
Ma dopo tutta questa ostentazione di partigianeria, di fronte all’inevitabile reazione russa (l’occupazione della Crimea), l’amministrazione Obama ha dimostrato ancora di non avere alcuna opzione militare sul tavolo. Né una mobilitazione simbolica, né l’invio di un corpo di interposizione, né uno schieramento navale d’emergenza, né alcun tipo di deterrente. Niente.
I russi hanno potuto agire impunemente, dimostrando pure di poter raggirare l’intelligence statunitense, colta di sorpresa dagli “omini verdi” approdati in Crimea dalla Russia.
Dopo la dimostrazione di inconcludenza in Siria, Putin evidentemente sapeva di agire senza rischiare alcuna risposta americana. Prima di queste due gravi crisi, Hagel aveva subito la sua personale umiliazione in Egitto. Aveva scongiurato il generale Al Sisi di lasciare il presidente Morsi al potere, minacciando anche notevoli contromisure militari. Visto il rapporto privilegiato fra gli eserciti egiziano e statunitense, era proprio Hagel in prima linea nella crisi. Ma la sua è stata, non solo una scelta sbagliata, ma anche la mossa perdente. Al Sisi ha ignorato le pressioni americane ed è arrivato al potere, al seguito della rivolta di piazza contro i Fratelli Musulmani del 3 luglio 2013. Attualmente è presidente dell’Egitto.
E’ stata la mossa sbagliata, un errore di tutta l’amministrazione Obama, appoggiare fino all’ultimo il governo dei Fratelli Musulmani guidato dal presidente Morsi, intollerante con le minoranze religiose, incapace di gestire l’economia, segretamente ostile a Israele, anche se formalmente ancora rispettoso del trattato di Camp David. Grazie a questa mossa sbagliata, gli Usa si sono alienati le simpatie del nuovo governo militare egiziano (che ha subito pressioni di tutti i tipi dal Pentagono), dei Fratelli Musulmani (che, alla fine, si sono sentiti scaricati) e della maggioranza degli egiziani (che vedono tuttora gli Usa come i protettori di Morsi).
Ma il peggio doveva ancora arrivare. E ancora dalla Siria. Il Pentagono, infatti, aveva sia sottovalutato la forza di una delle tante milizie estremiste in lotta nella guerra civile, chiamata convenzionalmente Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), sia sopravvalutato la tenuta dell’esercito regolare iracheno, armato e addestrato, per anni, dagli americani. Sotto lo sguardo inorridito degli osservatori americani, l’esercito iracheno si è disintegrato alla prima pressione dell’Isis, perdendo in due mesi tutte le regioni occidentali e settentrionali, compresa Mosul, la seconda città più popolosa del Paese.
Nell’agosto del 2014, l’America aveva completamente perso un alleato, l’Iraq, e non aveva reagito alla nascita di un nuovo Stato totalitario islamico nemico, il Califfato.
Non è ancora stata del tutto metabolizzata, ma si tratta della più grave sconfitta subita dagli Stati Uniti in Medio Oriente. Da questo particolare episodio, unico nel suo genere, è nato il dibattito sulla politica estera americana che dura tuttora. L’amministrazione ha ammesso candidamente (in agosto) di non avere ancora elaborato una strategia per affrontare l’Isis. In realtà c’erano più strategie in conflitto fra loro all’interno della stessa amministrazione.
Hillary Clinton si rifaceva viva esprimendo il disappunto di tutti gli interventisti: non agendo in Siria nel 2013, diceva la Clinton, si è creato un vuoto colmato dall’Isis. Lo dichiarava al The Atlantic, in un’intervista grottescamente deformata da alcune traduzioni in italiano (secondo una versione cara ai complottisti, la Clinton avrebbe “ammesso” che l’Isis era stato creato dagli americani), che in realtà costituiva una sfida all’amministrazione Obama: non siete intervenuti in Siria, diceva la Clinton, ora pagate il vostro errore.
In settembre, Chuck Hagel, che non era sicuramente incline all’intervento contro Assad, inviava due missive alla Casa Bianca, indirizzate a Susan Rice (National Security Council). Quelle lettere sono considerate, da alcuni organi di stampa (New York Times e Cnn soprattutto), come la vera causa del suo allontanamento. Nella prima Hagel suggeriva di focalizzare l’attenzione della politica estera e di sicurezza americana sulla Russia, più che sul Medio Oriente. Perché era la Russia a costituire la più grave sfida di lungo periodo. Nella seconda lettera, Hagel, in vista di un intervento militare di più ampio respiro contro l’Isis, chiedeva all’amministrazione quale fosse il piano per affrontare anche Assad.
Perché è logicamente impensabile combattere contro il Califfato al fianco di un dittatore che, fino all’anno prima si voleva bombardare. Così come è impensabile combattere contro l’Isis e contro Assad in territorio siriano.
Obama non ha mai chiarito questo dilemma. Si è sempre esposto contro Assad e contro l’Isis, annunciando di voler armare solo la parte più democratica della guerriglia siriana, circa cinquemila uomini in tutto.
Le domande di Hagel, in compenso, devono aver innervosito sia Obama che la Rice. Mancava solo un ultimo dettaglio: l’Iran.
La politica di Obama, favorita anche da Hagel, è fallita a novembre. L’opzione militare è stata accantonata per due anni. Non è stata esercitata alcuna pressione sul regime di Teheran. Si è data piena fiducia al presidente Rouhani, che tuttora è definito come un riformatore. E alla fine, il negoziato sul nucleare è fallito. Teheran non ha accettato neppure l’ultimo compromesso di Ginevra, in cui gli americani concedevano, di fatto, anche l’arricchimento dell’uranio senza contropartite.
Una volta naufragato l’ennesimo negoziato sul nucleare iraniano, lo scenario è questo: Teheran è ancora più vicino alla sua prima bomba atomica, milizie legate a Teheran controllano la parte di Iraq ancora libera dal Califfato.
Un trionfo silenzioso di Rouhani e Khamenei, un’altra sconfitta per l’amministrazione Obama.
A questo punto, dopo aver perso anche le elezioni di Medio Termine, vinte dai repubblicani, il presidente ha deciso di far cadere qualche testa. Hagel è stato il prescelto. Scelta logica: perché come repubblicano è un corpo estraneo in un’amministrazione democratica, come segretario alla Difesa si è esposto nei peggiori rovesci di politica estera e militare, come realista e isolazionista è la persona sbagliata nel momento sbagliato, perché gli Usa devono per forza mostrare i muscoli, se non altro in Siria e Iraq contro il Califfato.
Nella rosa dei possibili candidati alla sua sostituzione spicca il nome di Ashton B. Carter, un tecnico, esperto di guerra nucleare, non immune da critiche (per essere stato troppo falco nell’affrontare la prima crisi nordcoreana), ma le cui vere idee politiche sono classificabili come “non pervenute”.
Sempre che sia lui il successore al Pentagono, gli osservatori negli Usa sono concordi nel pensare che, chiunque arrivi in quella posizione, farà semplicemente da portavoce della Casa Bianca. Che è dominata da Barack Obama e dal suo “cerchio magico”: Susan Rice e Samantha Power, due accademiche che hanno il ruolo, rispettivamente, di presidente del National Security Council e di ambasciatrice degli Usa all’Onu. Sono due idealiste e liberal. Non sono particolarmente vicine alla causa di Israele.


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