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La Stampa - Il Giornale - La Repubblica Rassegna Stampa
16.12.2014 Attentato di Sidney: non sono 'lupi solitari', l'ideologia è sempre l'islam
Analisi di Maurizio Molinari, Fiamma Nirenstein, Marek Halter

Testata:La Stampa - Il Giornale - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Fiamma Nirenstein - Marek Halter
Titolo: «Balordi, fanatici e menti raffinate: se i 'lupi solitari' hanno più facce - La bandiera nera dell'Isis è arrivata in Occidente - Non chiamateli 'lupi solitari': dietro gli attacchi un'unica ideologia»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/12/2014, a pag. 3, con il titolo "Balordi, fanatici e menti raffinate: se i 'lupi solitari' hanno più facce", l'analisi di Maurizio Molinari; dal GIORNALE, a pag. 1-15, con il titolo "La bandiera nera dell'Isis è arrivata in Occidente", il commento di Fiamma Nirenstein; dalla REPUBBLICA, a pag. 6, con il titolo "Non chiamateli 'lupi solitari': dietro gli attacchi un'unica ideologia", l'analisi di Marek Halter.

Ecco gli articoli:


Sidney: una donna riesce a fuggire dalle mani del terrorista

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Balordi, fanatici e menti raffinate: se i 'lupi solitari' hanno più facce"


Maurizio Molinari                           Man Haron Monis

L’attacco di Sydney realizzato da un autoproclamato imam che inviava lettere minatorie ai parenti dei caduti in Afghanistan estende all’Australia la mappa dei «lupi solitari» jihadisti: profughi, figli di immigrati o convertiti si distinguono da Tolosa a Ottawa per una matrice ideologica comune ma profili differenti, costituendo la sfida più difficile per l’antiterrorismo.

L’imam profugo
Il terrorista di Sydney è Man Haron Monis, nasce in Iran come Manteghi Burjerdi, e nel 1996 si rifugia in Australia affermando di essere un «perseguitato religioso». Poco dopo l’arrivo si assegna il titolo di Sheik Haron, lascia lo sciismo per l’Islam sunnita, e mette in pratica tale «guida religiosa» inviando lettere ai parenti dei soldati caduti in Afghanistan, definendoli «porci» e «carogne contaminate». Supera il processo nel 2011 perché i giudici si dividono sul caso e rilancia la propria «leadership religiosa» con inserzioni pubblicitarie sui giornali locali in cui si definisce «esperto di meditazione e magia nera». L’intento è adescare le donne: le denunce per molestie sono dozzine e nel marzo scorso viene arrestato - e poi rilasciato - per aggressione sessuale.

Figlio di immigrati
Le manie di potere e l’alta esposizione pubblica di Sheik Haron, immigrato di prima generazione, stridono con il profilo da sconosciuto di Michael Zehaf-Bibeau, figlio di immigrati, autore dell’attacco al Parlamento di Ottawa. Zehaf-Bibeau nasce a Montréal in una famiglia mista, padre musulmano libico e madre cristiana, ha una gioventù segnata da dipendenza da droga e problemi con la giustizia, fino alla conversione all’Islam che coincide con un viaggio a Tripoli, ma quando torna è incostante anche nel frequentare la moschea, decide di emigrare in Medio Oriente ma non ha il passaporto e nell’attesa di riceverlo vive da homeless a Ottawa, fino al giorno in cui decide di diventare terrorista.

L’arte della «Taqyia»
Alla seconda generazione di immigrati appartiene anche Mohammed Merah, il killer che nel 2012 porta la morte nella scuola ebraica di Tolosa. Figlio di algerini integrati fino al punto da scegliere un dottore ebreo come medico di famiglia, Merah fa di tutto per demolire la scelta dei genitori commettendo reati a raffica che lo portano in prigione dove sposa l’Islam estremista, poi coltivato in una scuola coranica di Tolosa, con intenzioni di sfida verso la Francia che poi sceglie di servire nella Legione Straniera applicando la «taqiya», l’arte islamica di dissimulare, camuffarsi per non farsi identificare e coltivare in segreto progetti e intenzioni.

Convertiti killer
Fra i «lupi solitari» abbondano i convertiti a cominciare da Michael Oluwatobi Adebowale e Michael Olumide Adebolajo, entrambi nigeriani che nel 2013 aggrediscono in una strada di Woolwich, a Londra, il fuciliere Lee Rigby usando coltelli e macete per decapitarlo in un bagno di sangue che si propone di emulare le più cruente esecuzioni jihadiste. Con in più l’intenzione di spargere il terrore fra i civili perché la vittima è scelta a caso e nei volantini ai passanti scrivono: «Non sarete mai sicuri».

L’ideologia comune
Ciò che accomuna i «lupi solitari» è l’ideologia, ovvero la scelta di rispondere alla «dawa» (chiamata) della Jihad. Il contagio avviene quasi sempre via Web perché Isis segue le orme di Al Qaeda nel ricorrervi per cercare adepti. È una strategia teorizzata dal super-ricercato Abu Musab al-Suri, uno dei teorici al fianco di Obama bin Laden, sostenitore della «Jihad individuale» attraverso «cellule piccole, completamente separate» per «condurre la resistenza» evitando gli «errori compiuti l’11 settembre» quando la regìa di Al Qaeda si trasformò in un boomerang per i mandanti.

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "La bandiera nera dell'Isis è arrivata in Occidente"


Fiamma Nirenstein

C'è ormai nel mondo un club invisibile fino al momento in cui il ghiribizzo islamista afferra il cervello, si libera la sotterranea sete di vendetta contro il fantasma di un mondo occidentale persecutorio e dominatore. Allora a Sydney, a Londra, a Roma, chi pensa di aver sofferto un'ingiustizia da parte del mondo ebraico-cristiano può cercare un'arma e avviare la sua guerra personale. Sventolando, per la prima volta in Occidente, una bandiera nera su cui scrivere «non c'è nessun altro Dio fuori di Allah e Maometto è il suo Profeta» (la professione di fede propria di tutti i credenti dell'Islam e trasformata in uno slogan politico da Al Qaeda). Quel vessillo nero che chiama a raccolta ogni giorno nuovi fanatici sull'onda di Isis, Al Qaeda, Jabat al Nusra... insomma, di una delle organizzazioni che ogni giorno ci offrono lo spettacolo in cinemascope del taglio delle teste, dello stupro collettivo delle schiave sessuali, dell' odio etnico, della strage di massa, dell'infanticidio.

La tv, il video, internet garantiscono l'efficacia della guerra islamista; ipnotizzano. Il disgraziato periferico sa adesso a chi rivolgersi per trovare una casa madre. Noi diventiamo così le vittime designate di auto impazzite, sbarre, coltelli, acido, kalashnikov rimediati. Stavolta è toccato a Sydney, un luogo impensabile (gli intervistati per strada dicevano «chi può odiare gli australiani?»), all'affollato Chocolate Cafe Lindt, nel centro, di mattina: il lunatico estremista di turno munito di bandiera nera è costato per ora tre morti innocenti e vari feriti, una piccola folla di avventori e lavoratori del caffè è rimasta prigioniera dalla mattina a notte fonda di un cinquantenne iraniano. Man Haron Monis era un convertito dalla shia alla sunna, evidentemente più adatta al suo desiderio di vendetta immediata: l'anno scorso Monis era stato condannato a 300 ore di servizi comunitari per aver inviato lettere di insulti e minacce alle famiglie dei soldati uccisi in Afghanistan; era chiamato Sceicco Haron, si definiva un «guaritore spirituale», era stato condannato per violenze sessuali. Mescolava le pulsioni violente all'odio ideologico che riempie il suo website di sanguinose immagini di bambini ritenuti vittime degli attacchi aerei americani e australiani.

Alla sua schiera appartengono tutti i terroristi selfmade decisi a distruggere la società occidentale, eccitati dalle bandiere nere, certi che il califfato conquisterà il mondo. Era così, per esempio, il terrorista del Parlamento canadese, Michel Zehaf-Bibeau, un convertito con un passato di droga, e altri a Londra, in Francia, che chiamiamo «lupi solitari» ma sono ormai parte di un esercito che spia i bar, le istituzioni, le scuole, gli aerei facendone cenere nella loro mente malata. 

LA REPUBBLICA - Marek Halter: "Non chiamateli 'lupi solitari': dietro gli attacchi un'unica ideologia"


Marek Halter

I lupi solitari della jihad non esistono. Il santone iraniano di Sydney, o l’attentatore che ha colpita a Anversa, o ancora il terrorista che ha sparato all’interno del Parlamento di Québec City dopo aver ammazzato un poliziotto canadese, non avevano ricevuto l’ordine di compiere i loro eccidi. Ma sono stati tutti, chi prima e chi poi, a farsi indottrinare da qualche imam radicale in Siria, in Iraq o altrove. Hanno percepito una visione universale della religione, e se ne sono impregnati. Poi, una volta tornati a casa loro, in piena coscienza e dopo aver pregato Allah e chiesto la sua benedizione, hanno preso l’iniziativa di compiere un atto che giustifichi l’ideologia alla quale aderiscono. Il jihadista è da solo quando agisce, ma fa sempre parte di una mandria, di un gruppo. Non ha bisogno di chiedere l’autorizzazione al “califfo” Abu Bakr Al Baghdadi, ma colpisce nel nome di un’ideologia che condivide con migliaia di musulmani estremisti.

Il problema è che per noi occidentali, o per noi democratici, non c’è più protezione assoluta. Sono scomparsi i nostri santuari: siamo ovunque bersagli dell’estremismo, oggi a Monaco di Baviera, domani a Lussemburgo o a Siviglia. Una volta esistevano degli antidoti: le nostre ideologie. Era la contrapposizione di una forza contro un’altra. Potevamo contare sui nostri vicini per fronteggiare assieme il nemico. Ma oggi l’Islam radicale è una religione mondiale. È dappertutto.
Che cosa possiamo fare per rimediare a questa situazione apparentemente disperata? La prima cosa consiste nell’infiltrare i gruppi del terrore per cercare di prevenire i loro misfatti. È un compito che spetta ai servizi segreti e alla polizia, che tuttavia non riusciranno a spaventare i fondamentalisti, perché chi pensa di aver Dio dalla sua parte ed è pronto alla morte, difficilmente ha paura. È comunque necessario acchiapparli per tempo e sbatterli in carcere per impedire che esercitino il loro desiderio di violenza. Per una società bene organizzata, questo compito è relativamente facile. In Francia è stata appena decapitata una rete di predicatore che organizzava il viaggio di giovani francesi, la maggior parte dei quali appena convertiti all’Islam, in Siria e in Iraq.
La seconda cosa che andrebbe fatta è proporre a questi giovani un’alternativa: un’altra avventura. I nostri nonni e i nostri padri ne ebbero parecchie di avventure da vivere. Proprio come fanno oggi i jihadisti francesi o tunisini che vanno in Siria, mio nonno, ebreo di Varsavia, arrivò in Spagna nel 1936 dopo aver attraversato clandestinamente le frontiere di diversi Paesi. Ma il suo progetto era diverso: lui andava combattere contro i fascisti di Franco per solidarietà con gli spagnoli democratici. Oggi, per un giovane di una banlieue che ha voglia di partecipare a un avventura collettiva, la sola opportunità è la jihad, anche se spesso non sa neanche cosa sia l’Islam. Noi laici, pacifisti e universalisti non abbiamo nulla da proporre.
Nell’Islam non c’è contrapposizione tra un mondo in pace e un mondo in guerra, ma tra il mondo in guerra e il mondo islamico, nel senso che se tutti fossero musulmani non ci sarebbe guerra. La guerra tra musulmani, la cosiddetta fitna, è ferocemente condannata da Maometto, che la considera la più grande delle tragedie. Tra musulmani, dice il Profeta, non si deve combattere, perché hanno tutti la stessa concezione di Dio. A modo suo, questo concetto Al Baghdadi l’ha capito molto bene, e ciò spiega la differenza tra lui e Bin Laden. Il fondatore di Al Qaeda era un “terrorista all’antica”, che aveva messo in piedi una sorta di sistema mafioso, con gruppi di fondamentalisti a lui legati e sottomessi, e da lui finanziati e protetti. Con il “califfo” la figura del “padrino” è scomparsa: non è riconosciuto come un capo da tutti i terroristi islamici del pianeta, molti non sanno neanche chi è, altri lo combattono. Ma Al Baghdadi ha proposto un’ideologia vincente. Quella dell’eguaglianza assoluta.
Oggi, siamo in pericolo non perché ci siano troppi jihadisti, che sono pochi, ma perché manca chi vuole difendere la propria libertà. Il nostro mondo non è motivato. Non basta dire «non è bello» quando decapitano qualcuno. Non basta.
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