Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/12/2014, a pag. 21, con il titolo "Lo Stato ebraico come il Titanic, ma la svolta è possibile", l'intervista di Fabio Scuto a Etgar Keret.
Come sempre la stampa italiana - Repubblica e Fabio Scuto in particolare - intervista il giovane scrittore Etgar Keret, che esprime le stesse opinioni di Amos Oz, Abraham B. Yehoshua e David Grossman.
Perché non si candida per le prossime elezioni in Israele, così da poter offrire al suo Paese quello che ritiene essere un ottimo contributo?
E' lo stesso invito che abbiamo rivolto a Oz, Yehoshua e Grossman: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=0&sez=40&id=56334
Fabio Scuto Etgar Keret
«II mio Paese è un po' come il Titanic, dove i passeggeri invece di occuparsi della nave che sta affondando, cercano di farsi assegnare una cabina migliore». Non ha perso il filo dell' ironia lo scrittore Etgar Keret, una delle voci della nuova generazione nata dopo la guerra del 1967. La conversazione avviene mentre arrivano le notizie degli scontri in Cisgiordania e sul tavolo sono sciorinati i giornali del venerdì con le ultime sulla crisi di governo e le alleanze per il voto del prossimo marzo.
Cosa pensa degli avvenimenti che hanno portato al voto anticipato, in un momento di altissima tensione con i palestinesi, e delle alleanze che si prospettano specie nel centrosinistra?
«Diciamo subito che quello di Netanyahu è stato un governo pessimo al di là delle posizioni politiche. Da un lato quelli che proponevano un confronto violento e dall'altro quelli che, come Tzipi Livni, volevano portare avanti il processo di pace. Sono persone senza alcun comune denominatore, c'erano dentro personaggi che non hanno la minima idea di democrazia e quindi è un bene che sia arrivata alla fine. C'è stato un tentativo di cambiare il volto della società israeliana, prima con la guerra di Gaza e poi con la proposta di legge sulla nazionalità, trasformandola in una società sempre meno democratica e liberale».
Ma non è detto che i risultati delle elezioni siano quelli che lei spera... «È vero, però questa volta le elezioni toccheranno quello che è nel cuore del dibattito interno israeliano, e cioè il modo con cui vogliamo risolvere il conflitto israelo-palestinese. Penso che la crisi sia stata necessaria, anche se abbiamo dovuto ingoiare molti rospi per arrivarci: ma finalmente si parla delle cose vere, senza confonderle con altri argomenti, non altrettanto prioritari. Il leader del Partito dei coloni ha ricevuto una montagna di voti non solo dalla destra nazionalista, ma anche da giovani che si aspettavano cambiamenti nella politica economica».
La posta in gioco è più di una vittoria elettorale? «Sì, queste elezioni sono importanti perché ci mettono, in quanto società, di fronte ad uno specchio, come ha fatto la legge sulla nazionalità: "democrazia" è una parola con un ampio spettro di significati, e questa volta saremo costretti a decidere se vogliamo essere una società liberale ed aperta o una società di altro tipo. Anche la Russia si definisce una democrazia, vogliamo essere come la Russia?».
Non è un grosso rischio? La maggioranza degli israeliani si definisce di destra e vi sono strati della società che non certamente non vogliono essere liberali, come gli ultra-ortodossi o i nazionalisti religiosi? «È vero, ma credo che con una leadership appropriata ed un'opera di convincimento, la definizione che molte persone danno di se stesse potrebbe cambiare. Penso che lo scontro sarà basato meno sulla dicotomia sinistra-destra e più sulla scelta fra una società liberale ed una che non lo è».
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