Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/12/2014, a pag. 9, con il titolo "Raid su Damasco: Israele colpisce l'arsenale di Assad", la cronaca di Maurizio Molinari; con il titolo "Fra i feriti siriani sul Golan: 'Torneremo a combattere' ", la cronaca di Alberto Simoni.
I raid israeliani su depositi di armi di Assad, in Siria
Maurizio Molinari: "Raid su Damasco: Israele colpisce l'arsenale di Assad"
Maurizio Molinari
Blitz contro i depositi di armi di Bashar Assad e contatti con i ribelli sul Golan: il profilo di Israele si alza nella crisi siriana, aggiungendo un nuovo tassello alla guerra in atto.
Una pioggia di missili
I blitz aerei sono avvenuti ieri in prossimità dell’aeroporto di Damasco e della città di Dimas, vicino al confine libanese. Testimonianze locali, immagini sul web e fonti dell’Osservatorio sui diritti umani in Siria descrivono un’azione massiccia: almeno 10 esplosioni solo a Dimas. È stato un diluvio di missili dal cielo che, secondo fonti straniere citate dai media israeliani, ha avuto per obiettivo depositi di armi in mano alle truppe di Assad dove si trovavano componenti del sistema anti-missile S-300 di produzione russa. Più volte il Cremlino ha affermato di aver sospeso la consegna di questo dispositivo d’arma - in grado di proteggere i cieli siriani da ogni intrusione - ma l’intelligence di Gerusalemme deve aver avuto informazioni diverse e così sono partiti i raid, con l’intento di impedire il trasferimento degli S-300 agli Hezbollah libanesi, nemico giurato di Israele.
La reazione di Hezbollah
La reazione di Damasco e Hezbollah, attraverso le rispettive tv, è furente: «Violazione lampante della sovranità siriana al fine di aiutare i terroristi che si battono contro il governo». Significa imputare ad Israele un’intromissione diretta nella guerra in atto e colpisce in merito la coincidenza con il rapporto degli osservatori Onu sul Golan, consegnato ieri al Consiglio di Sicurezza. Contiene una ricostruzione minuziosa di quanto avvenuto lungo il confine del Golan dal dicembre 2013, soffermandosi sui sempre più frequenti «contatti» fra truppe israeliane e «ribelli siriani» senza specificare però di quali gruppi si tratti. Per il rapporto c’è stata una fase iniziale nella quale Israele «ha accolto feriti siriani», in numero sempre più consistente, trasportandoli negli ospedali di Nahariya e Zefat per curarli.
Poi è iniziata una «seconda fase» che ha visto soldati israeliani «consegnare due casse» ai ribelli così come due siriani «varcare la rete di frontiera» lo scorso 27 ottobre a «incontrarsi con i soldati». In quest’ultimo caso i siriani non erano feriti e dunque c’è l’interrogativo sul motivo dell’incontro, tantopiù che si svolse in coincidenza con la creazione - a trecento metri di distanza dalla frontiera - di una mini-tendopoli dei ribelli per ospitare disertori siriani. In quell’occasione l’ambasciatore di Damasco al Palazzo di Vetro fece sapere agli osservatori Onu di considerare la «tendopoli un obiettivo legittimo».
La svolta sul Golan
I portavoce militari israeliani non commentano sui raid in Siria - come già fatto in occasione di precedenti blitz - e ribadiscono che il soccorso ai siriani si limita a «curare i civili feriti» ma l’impressione è che qualcosa di nuovo stia maturando sul confine del Golan dove di fronte alle linee israeliane sono schierati tanto i jihadisti di Al-Nusra che, in un’area più ridotta, i soldati di Assad mentre nella città di Daraa, pochi km più lontano, vi sono le postazioni dei ribelli filo-occidentali.
Alberto Simoni: "Fra i feriti siriani sul Golan: 'Torneremo a combattere' "
Alberto Simoni
Due Caschi blu dell’Onu osservano, disarmati e con al fianco un cannocchiale arrugginito, dall’alto del Golan – versante israeliano sulla linea del cessate il fuoco del 1974 – il fronte siriano. Alla nostra sinistra il Monte Karmon, imbiancato, sovrasta la zona di guerra. Damasco dista appena sessanta chilometri. Sono dei segnali inchiodati a un palo a formare una rosa dei venti a indicare che Baghdad sta a 800 chilometri, Amman, in direzione Sud-Est si raggiunge in 135 chilometri, Gerusalemme in 240.
Fra soldati dell’Onu e qualche turista che si protegge dall’aria fredda nel Coffee Anan («anan» vuole dire nuvola in ebraico), un ufficiale dell’intelligence israeliana punta il dito verso il fondo valle. «Oggi è calmo, ma è lì che si combatte». È la guerra in Siria: i fedelissimi di Assad, e i ribelli, laici, sempre di meno quelli del Free Syrian Army, e islamisti, quelli di Al Nusra, branca locale di Al Qaeda. Gli israeliani non hanno dubbi, ormai la lingua che corre verso Sud a ridosso del confine è in mano a Jabat al Nusra, e anche il Golan non è esente dall’infiltrazione qaedista. «Non sappiamo quanti siano», forse un migliaio stimano invece alcune fonti. Che parlano di «milizie che hanno armi sempre più sofisticate e che intendono averne altre». Più che pattugliare con blindati il confine, questa in Siria non è una guerra tradizionale, conta più l’intelligence. A Quneitra, la città più importante ai piedi del valico, è un campo di battaglia, l’aviazione di Assad martella ogni giorno le postazioni nemiche per riconquistare terreno. E qui come a Daraa la città più a Sud, che fu epicentro della rivolta anti-Damasco 4 anni fa, e a Qataniah, la conta dei feriti resta impossibile. Eppure qualcuno di questi feriti è riuscito a superare il confine, a scavalcare il Golan, e a trovare ospitalità negli ospedali di Israele, «il nemico storico». Di questa cooperazione «transfrontaliera» parla l’Onu nel rapporto uscito ieri. Ma sono mesi che al Ziv Medical Center di Zefat, a 30 chilometri dal confine siriano, a una dozzina da quello libanese (e i vetri in frantumi, omaggio dei razzi di Hezbollah delle guerre passate lo testimoniano), «arrivano i siriani». Il vicedirettore Calin Shapira, italiano impeccabile imparato studiando medicina a Bologna, dice: «Siamo arrivati già a 427 feriti siriani dal febbraio del 2013, circa 30 bambini, e non si vede la fine ancora». Miliziani, ribelli, gente che ha fatto la guerra al regime. I medici del Ziv Medical Center non fanno domande. Operano, cercano di evitare amputazioni, curano. E poi rispediscono oltre confine. Procedura top secret. Al momento sono ricoverati 12 siriani. Li incontriamo in una stanza, i letti in fila, le coperte a coprire gli arti inferiori tumefatti. «Vogliamo tornare in Siria», dicono. Là c’è la famiglia, la casa o quel che ne resta, e una sfida. «Torneremo a lottare contro Assad». Israele per i siriani è il nemico sionista da abbattere, sono cresciuti con questa idea. Ritrovarsi curato da medici ebrei è uno choc. I quattro, il più giovane avrà 20 anni, il più vecchio non arriva a 35, ridono e annuiscono quando Fares Issa, un cristiano maronita che fa da «ufficiale di collegamento» fra i siriani e i medici, racconta un aneddoto. A un ferito chiesero: cosa farai ora che torni in Siria? Lui rispose: combatterò Assad. E poi quando la guerra sarà finita? Combatterò Israele.
Il grido di aiuto a Israele arriva direttamente dai siriani. Una telefonata, una segnalazione che c’è un ferito. L’ospedale allerta l’esercito, il ferito viene trasportato al confine; lì i soldati dello Stato ebraico lo prendono in consegna. Nessuna domanda, l’ambulanza parte veloce. Quattro, cinque ore per arrivare a destinazione in condizioni spesso disperate. «Sono resistenti agli antibiotici», dice il dottor Shapira. «Ma sono qaedisti?», chiediamo. «Loro sono malati, noi medici. Queste domande non le facciamo».
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