Il commento di David Meghnagi
Dal 23 al 29 novembre 2014
Una fuga silenziosa
Profughi ebrei in fuga dai Paesi arabi
Nei giorni 23-26 novembre si è tenuto a Salerno un incontro sullo stato delle relazioni ebraico cristiane, al quale hanno partecipato autorevoli studiosi ed esponenti delle due confessioni religiose. All’incontro promosso dal prof. Giuseppe Laras, Rabbino capo emerito della Comunità ebraica di Milano, e dalla Conferenza episcopale italiana, hanno partecipato oltre 400 persone. In una specifica sessione, dedicata alla condizione delle minoranze religiose nel Vicino Oriente, il prof. Meghnagi ha tenuto una relazione sulla vicenda delle minoranze ebraiche, di cui riportiamo un ampio stralcio.
L'esodo ebraico dai Paesi arabi verso Israele. Altre centinaia di migliaia di ebrei trovarono rifugio in Europa
«In tempi bui che confondono il giudizio – scriveva Freud in una lettera a Thomas Mann – le parole del poeta sono azioni». Quei tempi sono per fortuna alle spalle. L’ammonimento resta valido. Il mondo odierno è carico di pericoli. Non si può abbassare la guardia di fronte alle parole «malate» in cui è avviluppato il dibattito sul Vicino Oriente, con le sue false equazioni simboliche, i pregiudizi e i luoghi comuni. Le parole malate hanno bisogno di essere curate come le persone. Sono nato e cresciuto in un paese arabo che ho lasciato per sempre dopo un sanguinoso pogrom, il terzo nella storia della mia famiglia in poco più di vent’anni. Lungo l’arco di due decenni, centinaia di migliaia di ebrei hanno forzatamente abbandonato le loro case e i loro averi in ogni area del mondo arabo e islamico.
Le minoranze ebraiche non avevano partecipato alla guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba contro il nascente Stato di Israele e non costituivano un pericolo per nessuno. La loro fuga fu silenziosa, ignorata dalla stampa internazionale. Spariti gli ebrei dal mondo arabo, è toccato ai resti delle antiche civiltà che avevano popolato il Vicino Oriente prima delle invasioni arabe.
La centralità della Shoah nel dibattito sulla legittimità dell’esistenza di Israele ha fatto sì che la memoria delle sofferenze degli ebrei del mondo arabo fosse occultata per lungo tempo agli occhi anche degli israeliani. Solo di recente si è cominciato a comprenderne l’enorme valenza simbolica, per una visione più equilibrata del conflitto, oltre che per combattere una falsa equazione che si è andata affermando e che fa da sfondo a un nuovo antisemitismo. Ricordare le sofferenze degli ebrei nei paesi arabi è un salutare richiamo alla complessità dei problemi e alla realtà. Se si accetta che anche loro sono un elemento del complesso e sfaccettato mosaico mediorientale, le cose appaiono in una luce diversa. Se gli Stati arabi avessero accettato il voto di spartizione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, forse la storia avrebbe preso una piega diversa. Nel giorno in cui si festeggia la nascita di Israele, avrebbero potuto far festa anche i palestinesi.
I profughi ci sono stati da entrambe le parti con una differenza. Nel caso degli ebrei si trattava di comunità indifese e lontane dal teatro di guerra, mentre i palestinesi erano componente attiva di una guerra voluta dal mondo arabo. Gli abitati ebraici caduti in mano agli eserciti arabi vennero cancellati dalla faccia della terra, le persone furono uccise, messe in fuga, o fatte prigioniere. All’interno di Israele una parte consistente della popolazione araba è rimasta o è potuta tornare alle sue case. La società israeliana ha accolto i suoi esuli con una tensione morale incomparabilmente alta. L’arrivo degli immigrati fu considerato un valore in sé oltre che una necessità per non soccombere alla sfida demografica. Pur con le difficoltà dei primi anni, la vita nelle baracche e un senso d’insoddisfazione e di alienazione venuto a galla nei decenni successivi, gli ebrei di origine afroasiatica furono considerati e si consideravano parte di un processo di rinascita nazionale e di riscatto dopo secoli di umiliazioni. Diversa è la situazione alla quale sono andati incontro i palestinesi. Per una scelta politica degli Stati arabi, la loro condizione di profughi divenne ontologica. Anche se il mondo arabo era immenso e lo spostamento era stato in alcuni casi limitato a qualche chilometro dagli antichi villaggi, l’idea di una loro integrazione nei paesi arabi circostanti o lontani fu violentemente osteggiata. Il verdetto religioso e nazionalista era ineluttabile: la creazione di una patria ebraica nel cuore della nazione araba e dell’umma islamica era una violazione degli ordinamenti divini e terreni. Chi avesse tentato un accordo, era un traditore da eliminare.
Aver considerato l’esistenza di Israele un’onta che poteva essere lavata solo tornando allo status quo ante, è stata la grande colpa morale e politica del nazionalismo arabo, il segno di un’immaturità politica, l’origine di un fallimento più generale. La questione dei profughi poteva essere vista come uno dei tanti dolorosi scambi fra popolazioni avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale. Come è del resto accaduto per le popolazioni tedesche in Polonia, per le popolazioni greche e turche nella guerra fra turchi e greci, per gli indù e i musulmani al momento dell’indipendenza del Pakistan e dell’India. O per l’Italia con i profughi dall’Istria trasformati per decenni in fantasmi, privati di uno spazio condiviso per il dolore.
Demonizzando Israele, le classi dirigenti arabe hanno evitato di fare i conti con due fatti per loro psicologicamente inquietanti. A vincere nelle guerre che hanno scandito periodicamente la storia della regione non erano stati gli eserciti coloniali e imperiali. Una buona metà dei soldati che travolsero le armate egiziane, siriane e giordane nella guerra del giugno 1967 era composta dai figli delle mellah e delle hara, gente disprezzata e «inadatta» alla guerra che, nella visione che ne aveva l’Islam, poteva al più aspirare a essere «protetta» in cambio di un atto di sottomissione.
Non essere riusciti a «risolvere» il problema israeliano con i «metodi» adottati dai turchi contro gli armeni quarant’anni prima, era la fonte di “un’infelicità” che nel delirio ha finito per trasformare i crimini tentati in «olocausti subiti». Fin quando fu possibile spiegare l’umiliazione del 1948 con la corruzione e il tradimento delle vecchie classi dirigenti, e quella del 1956 con l’aggressione congiunta israeliana e anglo-francese, l’autoinganno poté conservare una parvenza di realtà. La ferita narcisistica diventava più sopportabile, l’onore arabo rinnovato dalla promessa che in futuro le cose sarebbero andate diversamente. Quando alla prova dei fatti, nella guerra del 1967, gli eserciti arabi uscirono sconfitti in pochi giorni, la fuga dalla realtà fu completa. Israele diventò l’incarnazione del male.
La campana a morte per i regimi nazionalisti fu ritardata dal sostegno massiccio profuso dall’Unione Sovietica nel rimettere in piedi l’esercito egiziano e siriano dopo la sconfitta del 1967, e nel sostegno dato al conflitto del 1973 attraverso il quale l’Egitto riconquistò «l’onore perduto». La crisi del nazionalismo panarabo spianava la strada al fondamentalismo e alla rilettura del conflitto arabo-israeliano nei termini di uno scontro più vasto fra l’Occidente cristiano e l’Islam, con Israele nel ruolo di «Stato crociato» e di «piccolo Satana» al servizio del «grande Satana». Nella logica islamista la jihad dei palestinesi «non riguarda solo i palestinesi ma tutto l’Islam». «L’onta della Naqba», un’idea che nel mondo arabo si afferma dopo la Prima guerra mondiale in risposta alle spartizioni coloniali europee, assurge a simbolo di una sequenza più ampia che conduce a ritroso agli albori della civiltà islamica. In questa perversa logica, che salda l’antisemitismo più antico con quello più recente, lo stato nato per offrire un rifugio agli ebrei, assurge a “stato paria”, delegittimato e demonizzato.
Dopo la fuga degli ebrei dal mondo arabo è cominciata l’agonia di ciò che era rimasto della civiltà cristiana di Oriente. Sparite le differenze locali, le immagini negative dei «popoli vinti» e dominati dall’Islam sono state proiettate su Israele. In un delirio crescente Israele è assurto a simbolo dei mali che opprimono la civiltà araba e islamica. In seguito la violenza è esplosa nel cuore dell’umma, con centinaia di migliaia di vittime innocenti che non fanno notizia. Ridurre la questione dei profughi ebrei dei paesi arabi alla sola vicenda del conflitto arabo-israeliano è una rinuncia alla capacità critica e di pensiero. Le loro peripezie sotto il giogo islamico sono poco note, le umiliazioni ignorate, il dolore invisibile. Accolti nella terra dei padri, come liberati o redenti, gli ebrei del mondo arabo hanno faticato prima di vedersi riconosciuta l’identità profonda, la cultura e la storia. Animati dalla speranza di una vita diversa nella terra dei padri, costretti dalle persecuzioni, risposero in massa a un richiamo ancestrale tenuto vivo nei testi sacri e nelle preghiere. A parte i più benestanti e coloro che avevano dei legami nelle metropoli europee, la maggioranza trovò naturale salire verso la terra dei padri recando con sé semi di spezie e pro- fumi da piantare per riportare in vita la terra. Tra enormi difficoltà, gli ebrei del mondo arabo hanno trasformato l’esilio in esodo. Sono oggi parte di una nazione libera. Una minoranza importante ha ricostruito la sua vita in Occidente contribuendo allo sviluppo delle nuove patrie di adozione. A lungo ho vissuto come se l’esperienza della mia infanzia appartenesse al passato remoto. Era una frattura nel tempo e nello spazio. Un grande spartiacque divideva la mia vita. Il prima e il dopo erano irriducibili. Eppure erano passati pochi anni.
Occupandomi del problema anche da un punto di vista professionale, lavorando con persone che hanno vissuto dei traumi collettivi, ho poi compreso che il mio sentire rispondeva a uno schema. Gli attori potevano avere trascorso l’infanzia e la giovinezza a mille e più chilometri di distanza dai luoghi in cui vivono ora: Roma, Parigi, New York, Londra e Tel Aviv. Ma la frattura interiore segue lo stesso andamento. Solo molto tempo dopo, grazie alle nuove generazioni che non hanno sperimentato direttamente il trauma, i legami possono riannodarsi rinnovando l’interesse per i luoghi del passato. Nel mio dolore non ero solo. Elaborando la mia storia, ho potuto essere di aiuto a chi in condizioni diverse ha vissuto esperienze di sradicamento ed era alla ricerca di un ritrovamento che rendesse sopportabile l’esperienza della perdita e del dolore. Come analista ho avuto modo di lavorare con pazienti europei e israeliani, arabi e iraniani, ebrei, musulmani e cristiani. La preoccupazione per l’esistenza di Israele mi ha accompagnato dalla prima infanzia. Se anche lo avessi dimenticato, e non avrei mai potuto, la cancellazione per legge dalle mappe geografiche di quel punto minuscolo chiamato Israele era la proiezione simbolica di un programma che la violenza verbale delle trasmissioni delle radio arabe rendevano esplicito. Impegnato a sostegno del dialogo e per una composizione politica del conflitto che lacera il Vicino Oriente, l’idea di un ritorno al mio paese natale, anche per una breve visita, non mi aveva mai sfiorato. Non c’era più nulla che mi legasse a quel passato. Mi ritenevo fortunato perché ne ero uscito vivo. Il vincolo tra le generazioni non si era spezzato, i figli hanno potuto conoscere i nonni, la gente ha potuto ricrearsi una vita libera in luoghi più ospitali. Ma vi è pur sempre qualcosa di inquietante nel ritenersi fortunati perché altri hanno avuto un destino inenarrabile. Le emozioni possono sciogliersi nell’incontro con i profumi dell’infanzia, nell’attesa a uno scalo aereo, in treno, seduti al bar o osservando i figli che giocano. Molti anni fa, durante una sosta all’aeroporto di Roma, sul tabellone che indicava dei voli in partenza due scritte ben distinte (Roma-Tel Aviv, Roma-Tripoli) a causa della stanchezza dell’attesa mi apparvero come sovrapposte. Per un attimo ebbi la sensazione che un luogo portasse all’altro e viceversa. Come in sogno potevo partire e tornare, essere ovunque a casa perché il mondo intero è una casa e l’umanità intera è una sola famiglia. La mia città aveva da sempre viaggiato con me. Era parte del mio mondo onirico insieme ai ritmi della musica orientale così ricca ed espressiva, ai canti d’amore e a quelli liturgici che rendevano gioiose le nostre sinagoghe, alla nostalgia che provo ricordando gli amici perduti, all’intensità dei pro- fumi del mio paese natale e alla sua brezza marina, alle fantasie che facevo guardando le navi in partenza immaginandomi al loro interno.
Il percorso di ricostruzione di una vita non è mai lineare, soprattutto quando coinvolge interi gruppi umani. Per rimarginarsi le ferite hanno bisogno di essere nutrite dalla speranza. Altrimenti le paure più antiche si confondono con quelle più attuali e il passato può accecare il presente. Senza una visione che mantenga viva la speranza futura anche il presente si annebbia e può diventare insopportabile. A dispetto delle vicende dolorose da cui sono divisi, ebrei e musulmani, arabi e israeliani non sono condannati a essere ostili per sempre. C’è e deve esserci una via di uscita e se anche questa possibilità non è nell’immediato, non bisogna per questo negarla al futuro. Immaginando scenari diversi, anche se oggi ci sono negati, il peso del passato e le difficoltà del presente diventano più sopportabili. Possiamo tollerare i sacrifici che la difficile situazione impone.
Nella tradizione ebraica l’elemento della scelta è essenziale. Anche se nella realtà esterna i rapporti sembrano per sempre spezzati, sul piano interno si deve fare di tutto per conservarsi liberi. Nella Qabbalah anche il mondo del Pleroma vive di scissioni che tocca all’uomo ricomporre. Le preghiere e le invocazioni che salgono dal mondo servono a riannodare ciò che è andato spezzato nel mondo celeste. Non si tratta di abdicare al senso di realtà, né di suicidarsi moralmente per compiacere. Ma di conservare vivo – insieme alla consapevolezza delle opportunità e dei pericoli che il futuro racchiude – il sentimento della speranza senza il quale un progetto di vita e di società non potrebbero darsi. Se i confini dello spirito restano aperti – e in taluni momenti può essere necessario per conservare l’integrità psichica contro la follia del mondo –, il persecutore non riesce a installarsi nell’anima avvelenandola.
David Meghnagi