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La Stampa Rassegna Stampa
25.11.2014 L'Iran prende tempo e corre verso il nucleare
Ma per Roberto Toscano non è un 'pericolo credibile'

Testata: La Stampa
Data: 25 novembre 2014
Pagina: 11
Autore: Roberto Toscano
Titolo: «Fumata grigia sul nucleare, ma con l'Iran il dialogo va avanti»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/11/2014, a pag. 11, con il titolo "Fumata grigia sul nucleare, ma con l'Iran il dialogo va avanti", l'analisi di Roberto Toscano.


L'Iran corre verso il nucleare

Ancora una volta Toscano esprime il proprio sostegno al sanguinario regime degli ayatollah che da 35 anni opprime la Persia. Di conseguenza è favorevole all'annullamento totale delle sanzioni contro l'Iran, che sarebbero al contrario da implementare per impedire il programma iraniano di corsa al nucleare, o almeno per allungarne i tempi.
Secondo Toscano la minaccia di un Iran dotato di ordigno nucleare è un "
pericolo non credibile" per Israele. Eppure è sufficiente guardare un telegiornale iraniano, oppure semplicemente osservare i manifesti lungo le strade, per constatare il continuo incitamento alla distruzione di Israele da parte della repubblica islamica retta, di fatto, dall'ayatollah Khamenei.
L'odio cieco e antisemita di decine di milioni di persone non è un pericolo credibile? Vogliamo davvero mettere in mano a fanatici pronti a tutto la bomba atomica?

Ecco l'articolo:


roberto Toscano

Nessun accordo sul nucleare a Vienna. Nonostante mesi di un negoziato serio, serrato, e condotto dalle due parti con competenza e buona volontà, e nonostante secondo numerose indiscrezioni si fosse raggiunto un margine di intesa del 95 per cento, la questione nucleare iraniana rimane aperta.

Fumata nera, quindi? Se fosse possibile, si potrebbe dire che la fumata in realtà è grigia, nel senso che il negoziato rimane aperto, con una nuova scadenza fissata a fine giugno 2015, e che nei prossimi sette mesi continueranno gli incontri, probabilmente a partire da quello che si terrà in Oman già entro il prossimo mese di dicembre. Per marzo è invece fissata una sorta di scadenza intermedia con funzione di verifica. Si potrebbe discutere a lungo applicando il proverbiale schema del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, se non fosse che siamo in presenza di un bicchiere molto fragile, e che il tempo di qui alla nuova scadenza verrà di certo usato dai negoziatori per cercare una soluzione per i punti ancora non concordati, ma anche da parte di chi prende di mira il bicchiere stesso più che i suoi contenuti.

Nella sua conferenza stampa, il Segretario di Stato Kerry ha parlato di «questioni tecniche complicate» che non è stato possibile risolvere nel loro complesso. Al di là delle innegabili complessità tecniche del negoziato, si può invece dire che - più che la questione del numero di centrifughe o del tipo di controlli - quello che probabilmente non ha permesso di raggiungere un'intesa è che all'Iran si chiedeva l'applicazione immediata delle misure di riduzione della capacità di arricchimento a fronte di una eliminazione solo graduale delle sanzioni. Un'asimmetria che ben difficilmente potrebbe risultare accettabile da parte del vero capo-delegazione iraniana, quel Khamenei che ha concesso ai negoziatori iraniani un margine negoziale, ma certo non un assegno in bianco.

È chiaro a tutti, comunque, che quello che è in gioco è molto di più della questione nucleare. Un accordo a Vienna sarebbe stato infatti un passaggio fondamentale verso il riconoscimento del ruolo dell'Iran in un contesto regionale, tanto più significativo in un momento in cui per fermare e invertire l'avanzata del cosiddetto Stato Islamico l'apporto iraniano appare ben difficilmente sostituibile, se pensiamo alla stanchezza dei curdi, lasciati soli in prima linea, alla riluttanza americana ad impegnare propri reparti di terra, alle ambiguità degli Stati sunniti (oggi spaventati dallo scatenarsi di forze da loro stesse sostenute), alla scarsa collaborazione della Turchia, a un esercito iracheno che, come scriveva ieri il «New York Times» in un articolo devastante, brucia per la clamorosa corruzione dei sui vertici enormi risorse, prevalentemente americane, che dovrebbero metterlo in condizione di lottare seriamente con i jihadisti.

Non è l'atomica iraniana a spaventare israeliani e sauditi, ma la prospettiva di una normalizzazione dei rapporti fra Washington e Teheran. Per rendersene conto, e per capire come certi timori siano fondati, basta considerare quello che il Presidente Obama ha detto domenica scorsa al programma «This Week» della catena televisiva «Abc», quando ha definito l'Iran «un grande Paese, con molti talenti e molta sofisticazione», e ha aggiunto: «L'Iran non è come la Corea del Nord, un Paese che è completamente isolato e completamente disfunzionale». Ancora più significativo è il fatto che Obama ha tenuto a sottolineare che anche dopo l'eventuale soluzione della questione nucleare, rimarranno, nei rapporti con l'Iran, problemi come l'appoggio a movimenti terroristi e l'ostilità nei confronti di Israele, ma ha parlato di «un lungo cammino verso la normalizzazione».

Nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, emergerà al di là di ogni possibile dubbio la natura politica della questione, al di là di una paventata proliferazione nucleare e del pericolo, ancora meno credibile, di una futura aggressione nucleare iraniana ad Israele. Tutto si collega, in Medio Oriente: dagli equilibri nel Golfo alla minaccia jihadista, dal ruolo della Turchia alla fragilità del Libano, dall'incerto futuro della monarchia saudita alla guerra civile endemica dello Yemen, per arrivare alla questione palestinese, punto di riferimento ideologico, prima ancora che geopolitico, per un mondo arabo-islamico che trova nella causa palestinese un irrinunciabile punto di convergenza, anche se spesso più a livello retorico-propagandistico che reale.

Questo groviglio di problemi, violenze, rivalità, interessi contrapposti, è entrato - dopo il miraggio della Primavera Araba - in una sorta di deriva dagli imprevedibili approdi. Una deriva che né gli americani né gli europei sembrano in grado di arrestare. Nessuno si illude che l'Iran possa essere un alleato degli Stati Uniti. Al massimo potrà essere un interlocutore problematico, ma evidentemente Obama è giunto alla conclusione che l'Iran sia un interlocutore importante, più razionale che fanatico («non una Corea del Nord») nonostante la persistente retorica. Ecco quello che è veramente in gioco, e non certo il numero di centrifughe o il breakout time - problemi solubili nel prosieguo del negoziato. Possiamo essere sicuri che si tratterà di un gioco pesante, sia a Washington, dove Obama - dopo la perdita anche del Senato - è ormai un' «anatra zoppa», e a Teheran, dove i nemici della normalizzazione, e soprattutto della moderazione del Presidente Rohani, non rimarranno certo inerti nei prossimi mesi.

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