Via Delle Botteghe Oscure
Patrick Modiano
Bompiani
«Gente strana, che al passaggio lascia solo una scia di nebbia che prontamente svanisce. Con Hutte chiacchieravo spesso di questi esseri di cui le orme si perdono. Nascono un bel giorno dal nulla e al nulla ritornano dopo un fugace brillio. Reginette di bellezza, gigolos, farfalle. La maggior parte, anche da vivi, non avevano più consistenza di un vapore destinato a non condensarsi mai». Chi parla è Pedro McAvoy Stern, protagonista-narratore di Via delle Botteghe Oscure , il romanzo con il quale Patrick Modiano, già noto al grande pubblico, vinse nel 1978 il Premio Goncourt.
Hutte è il responsabile di una Agenzia di Investigazioni nella quale il narratore ha lavorato per alcuni anni: ora è stanco, lascia l’agenzia e si trasferisce a consumare la sua vecchiaia a Nizza. Pedro McAvoy Stern è un uomo che alcuni anni prima, per colpa di una amnesia, non sa più chi è. Gli «esseri di cui le orme si perdono» sono il suo passato. L’agenzia è chiusa. Lui può cominciare a investigare su se stesso. Lo farà — con una intuizione geniale messa in campo da Modiano — non partendo da un dettaglio, ancorché minimo, della propria esistenza muta. Noi — pensa Modiano — siamo come quegli individui anonimi che appaiono per anni nelle fotografie, senza alcun motivo, nessuno sa chi sono, nessuno si preoccupa di loro, e poi, a un tratto, scompaiono dalle fotografie e non ci sono più. Insomma: veniamo dal nulla e torniamo nel nulla. Dunque, l’investigazione può nascere da una persona qualunque, alla quale chiedere aiuto. Da una persona che del nostro passato ignora tutto. Ma, se vuole, può offrirci il suo aiuto presentandoci a un’altra persona qualunque. Che ci farà vedere una fotografia nella quale scorgeremo il profilo di un uomo o una ragazza o una donna che forse abbiamo conosciuto. E andremo a ricercare. Con la tenacia dell’indagine poliziesca.
Infatti, se è vero che veniamo dal nulla e il nostro destino è il nulla, è altrettanto vero che, fra questi due abissi, c’è il percorso di quella lancetta del tempo — di cui parla Frank Kermode nel suo bellissimo libro intitolato Il senso della fine — che può attraversare lo spazio di un secondo, dandoci l’illusione di durare una vita. Questa è la scommessa dell’uomo che forse si chiama Pedro McEvoy, forse Pedro Stern; ha conosciuto ed è stato amico di uomini e donne oramai scomparsi; ha amato una donna di nome Denise e con lei è scappato in Svizzera dalla occupazione nazista; ha frequentato il mondo degli emigrati russi, quello dei diplomatici sudamericani, quello delle modelle e delle ballerine; ha cambiato spesso domicilio; è finito chissà come a Roma in Via delle Botteghe Oscure. Ed è, ovviamente, la scommessa di Patrick Modiano: costruire dal nulla la memoria. Via delle Botteghe Oscure, che in molti hanno voluto vedere influenzato dalla cosiddetta école du regard di Butor, Nathalie Sarraute, Robbe-Grillet, è un romanzo proustiano (non consolatorio) nell’unico modo in cui può essere proustiano un romanzo moderno. Essendo, cioè, nella storia e insieme fuori della storia. Resuscitando il passato per lacerti di immagini, di luoghi, di figure umane, di emozioni che, nello stesso momento in cui prendono consistenza, ci sfuggono: «Come quei fugaci frammenti di sogno che uno cerca di afferrare al risveglio per ricostruire il sogno nella sua interezza».
Talvolta, questi frammenti fanno luce su una strada, su una casa, una stanza, il colore di una parete o di un soffitto, un letto, l’imboccatura delle scale. Talvolta, sulla hall di un albergo di second’ordine. Talvolta, sulle ombre di un parco. Talvolta, nella polvere di un castello abbandonato. Talvolta, in una voce. In un profumo. Scompaiono. Ma poi riappaiono e si legano, in un racconto che a poco a poco scioglie gli enigmi di un passato tanto trascurabile quanto doloroso, e, prima di cancellarsi nuovamente, tiene il lettore col fiato sospeso. Ambientato in una Parigi nella quale si muovono personaggi loschi (sfruttatori, spie, assassini) e personaggi innocenti — tanto più inquietante quanto più è descritta da una topografia borghese o piccolo borghese che poco o niente concede (quasi la città stessa volesse nascondersi) alla Parigi dei suoi grandi viali dolcemente alberati, del suo fiume, dei suoi tetti, delle sue piazze all’imbrunire — Via delle Botteghe Oscure , oltre a essere un romanzo proustiano moderno della memoria, è certamente un romanzo felliniano. Penso, in particolar modo, a uno dei due capolavori di Federico Fellini: Otto 1/2 (l’altro è La dolce vita ). Il protagonista di Otto 1/2 è, come sappiamo, un regista che, in crisi di ispirazione, si tortura non riuscendo a trovare un bandolo, un filo di congiunzione per fare il suo film, e quindi convoca per i provini, sul set inesorabilmente vuoto, tutti i personaggi, veri o finti, tutti i ricordi, tutti i sogni della sua vita. Finché, quando sta per arrendersi, capisce che non doveva trovare nessun bandolo, nessuna spiegazione. Bensì, fare come ha fatto. Perché quei personaggi, quei ricordi, le vicende che ha vissuto, quelle che ha sognato e non ha vissuto, sono se stesso. E non pretendono alcuna spiegazione. È quello che capita in Via delle Botteghe Oscure : un romanzo molto bello, al quale il tempo ha donato solidità e spessore.
Giorgio Montefoschi, Il Corriere della Sera