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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
19.11.2014 Sangue in sinagoga: l'opinione di A.B. Yehoshua, David Grossman
Intervista di Maurizio Molinari a un terrorista palestinese e a Yehoshua, intervista di Fabio Scuto a Grossman

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Fabio Scuto
Titolo: «Nella roccaforte araba dell'Est: 'Ora sogniamo altri martiri' - Yehoshua: Riparta il dialogo, il conflitto da nazionale non deve diventare religioso' - 'Siamo sull'orlo del precipizio, ormai il conflitto è diventato tribale'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/11/2014, a pag. 9, con il titolo "Nella roccaforte araba dell'Est: 'Ora sogniamo altri martiri' ", l'intervista di Maurizio Molinari ad Aladin Abu Jamal; a pag. 9, con il titolo "Yehoshua: Riparta il dialogo, il conflitto da nazionale non deve diventare religioso' ", l'intervista di Maurizio Molinari a Abraham B. Yehoshua; da REPUBBLICA, a pag. 4, con il titolo "Siamo sull'orlo del precipizio, ormai il conflitto è diventato tribale", l'intervista di Fabio Scuto a David Grossman.


L'attentato di ieri: sangue in sinagoga

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Nella roccaforte araba dell'Est: 'Ora sogniamo altri martiri' "


Maurizio Molinari

Bandiere palestinesi sui pali elettrici, scritte inneggianti alla Jihad sui muri scrostati, resti di spazzatura data alle fiamme per protesta e una grande tenda con tappeti verde-rossi per celebrare il lutto come una festa collettiva. Siamo al numero 3 di Salman Al Farisi di Jabel Mukaber, ovvero nella casa della famiglia Abu Jamal a cui appartengono Oday e Ghassan, 22 e 32 anni, autori dell’attentato alla sinagoga di Har Nof. Parenti e amici portano tendaggi e sedie per adornare il luogo della celebrazione della morte.
A ringraziare tutti a nome della famiglia è Aladin Abu Jamal, 32 anni. «Sono il cugino dei due shahid - dice - e a differenza da quanto dicono tutti non credo che siano morti, sono diventati dei martiri, rendendo onore a chi li ama». Kefiah bianconera attorno al collo, maglietta nera e jeans, Aladin parla attorniato da una piccola folla. «Oday e Ghassan amavano questa terra, lo hanno fatto per la moschea di Al Aqsa e per far capire al mondo che questa è casa nostra e gli ebrei ce l’hanno usurpata». Parla a getto, riscuotendo plausi rumorosi e sguardi ammirati dagli «shabab» - i giovani - che poche ore prima hanno fato battaglia proprio a Jabel Mukaber contro i soldati israeliani, arrivati per arrestare altri famigliari degli attentatori. È Mahmud, zio di Oday e Ghassan, che accusa i militari di «aver portato via 14 parenti, inclusa la moglie di Oday». Gli agenti dello «Shin-Beth», il controspionaggio, cercano informazioni su possibili complici dei due «lupi solitari» ma basta guardarsi attorno per rendersi conto che il sostegno per gli attentatori è ovunque.
Una donna, sui 40 anni, vestita di nero, si avvicina ai reporter alzando le mani al cielo per gridare «Oday e Ghassan sono tutti nostri figli, speriamo che Allah ce ne dia molti come loro». Siamo a cinque minuti di auto dal cuore della Gerusalemme ebraica, gli Abu Jamal come tutti i 14 mila residenti del quartiere arabo di Jabel Mukaber hanno documenti israeliani e fra questa roccaforte nazionalista palestinese e il quartiere ebraico di Talpiot Est non ci sono barriere né posti di blocco. Basti pensare che i pullman turistici sostano a 800 metri da qui per far vedere ai visitatori il panorama mozzafiato della Città Vecchia. Gli oltre 300 mila palestinesi di Gerusalemme Est costituiscono un vulnus per la sicurezza dello Stato Ebraico perché vivono mischiati agli altri 600 mila residenti ebrei.
Yoav Nissim, tassista di Talpiot Est, conosce Aladin Abu Jamal e ogni sabato porta i figli a giocare sul prato verde, attorno a una sede dell’Onu, che accomuna il quartiere ebraico a Jaber Mukaber. «Questo sabato non ci andrò, perché il clima in città è cambiato», spiega il tassista, riflettendo il timore per le violenze in crescita. D’altra parte proprio da Jaber Mukaber veniva Naif El-Jaabis, che alla guida di un trattore il 4 agosto scorso si è scagliato contro un bus di linea, uccidendo un 29enne.
Se durante la Prima e Seconda Intifada i palestinesi di Gerusalemme Est hanno mantenuto un profilo più basso negli scontri con gli israeliani, rispetto agli arabi in Cisgiordania e Gaza, ora sono in prima fila. Mahmud lo dice così: «Se volete sapere perché ho due nipoti martiri, chiedetelo a Netanyahu che vuole strapparci la moschea di Al Aqsa». È proprio Benjamin Netanyahu a dire che «questa è la battaglia per Gerusalemme, vogliono cacciarci ma non ce ne andremo». Quando riportano ad Aladin queste frasi, risponde di getto: «Siamo tanti, abbiamo energia e fede in Allah, armi imbattibili per sfidare chi ci occupa». Dunque, la battaglia per Gerusalemme può iniziare. Anche perché a dare sicurezza agli Abu Jamsl c’è la processione di famiglie che gli rendono omaggio, snodandosi lungo le strade del quartiere, fino a pochi metri dal piazzale dove i militari israeliani hanno creato la loro base. Fra i loro mezzi anti-sommossa c’è un aerostato: è considerato più efficiente dei droni.

LA STAMPA - Maurizio Molinari intervista Abraham B. Yehoshua: "Yehoshua: Riparta il dialogo, il conflitto da nazionale non deve diventare religioso' "


Abraham B. Yehoshua

«Non bisogna arrendersi alle violenze, parlare di coesistenza fra arabi ed ebrei in questa terra è ancora possibile e a rilanciarla potrebbe essere un gesto di re Abdallah di Giordania». Ad affermarlo è A. B. Yehoshua, lo scrittore israeliano strenuo difensore della soluzione dei due Stati.

Perché guarda verso Amman?
«Perché la catena di violenze fra israeliani e palestinesi è in corso da giugno e non accenna a rallentare. Il rapimento dei tre ragazzi ebrei, il conflitto a Gaza, gli attacchi seguiti a Gerusalemme e Tel Aviv, la battaglia sui luoghi santi del Monte del Tempio. La genesi è nell’assenza di un dialogo fra Israele e palestinesi da quando, la scorsa primavera, si interruppero i negoziati promossi dagli Usa fra Netanyahu ed Abu Mazen. Abbiamo avuto anche la provocazione di quei deputati israeliani dell’estrema destra che sono saliti sul Monte del Tempio violando il divieto ebraico di farlo. Il dialogo deve ricominciare e affinché ciò avvenga non credo vi siano alternative: dobbiamo guardare alla Giordania. È uno Stato arabo con cui Israele parla da 65 anni ed è anche l’unico Stato arabo che in questo momento sembra voler davvero ascoltare i palestinesi che non hanno più interlocutori in Siria e hanno rapporti freddi con l’Egitto».

Cosa dovrebbe fare re Abdallah II?
«Netanyahu dovrebbe invitarlo a mandare a Gerusalemme una delegazione del regno di Giordania per evidenziare che sono loro i garanti dello status quo dei luoghi santi nella Città Vecchia. D’altra parte questo status quo fu voluto da Moshe Dayan dopo la guerra dei Sei Giorni, Israele e palestinesi riconoscono ad Amman tale ruolo ed è per questo che Netanyahu e Abu Mazen sono andati di recente in Giordania a parlare con il re per disinnescare le tensioni su Gerusalemme. Se una delegazione ufficiale giordana arrivasse nella Città Vecchia per sottolineare il ruolo di garante potrebbe avere subito effetti positivi, riaprendo un orizzonte di coesistenza».

Procedendo in quale direzione?
«Bisogna impedire che il conflitto israelo-palestinese da nazionale diventi religioso. In passato Israele ha subito attentati terroristici sanguinosi, tremendi, più di quello compiuto ad Har Nof, ma è la prima volta che dei singoli palestinesi entrano sparando dentro una nostra sinagoga. In un’azione personale di terrore. Bisogna smantellare le sovrastrutture della mitologia religiosa, che da quanto avviene in Siria ed Iraq all’attacco Har Nof, costituiscono la più temibile minaccia alla convivenza fra persone di fede diversa».

Cosa prevede per l’immediato futuro?
«La mia speranza è che il dialogo fra Re Abdallah II, Abu Mazen e Netanyahu inizi e porti ai due Stati oppure anche a una confederazione fra tre Stati. È l’unica possibilità che abbiamo di andare avanti. Il mio timore invece è di un contrattacco da parte di fanatici israeliani, capaci di entrare in una moschea e fare fuoco come fece Baruch Goldstein a Hebron nel 1994».

LA REPUBBLICA - Fabio Scuto intervista David Grossman: "Siamo sull'orlo del precipizio, ormai il conflitto è diventato tribale"


Fabio Scuto            David Grossman

«Stiamo precipitando nella dimensione del fanatismo e dell’irrazionalità, siamo ormai sull’orlo dell’abisso». Il dolore è palpabile nelle parole di David Grossman, lo scrittore israeliano voce di una generazione che al sogno della pace in Terrasanta non ha mai smesso credere, oggi non più riesce vedere quella speranza. «Il conflitto che stiamo vivendo ha fatto un salto indietro nel tempo, è sempre più brutale e più selvaggio. Le stesse armi usate per la strage, coltelli e accette, testimoniano il ritorno a una guerra tribale».

Mai finora il terrore sanguinario aveva passato le porte sacre di una sinagoga. Una strage che lascia sgomenti... «Un profondo dolore e rabbia si mescolano per l’assassinio di persone innocenti, nel momento della preghiera del mattino, colpiti a casaccio, alla cieca, solo perché erano israeliani ed ebrei. Ma sento anche una grande frustrazione nel vedere, giorno dopo giorno, nuove vittime dalle due parti. Uccisi, feriti, investiti o rapiti in questo circolo vizioso di violenza e di odio, che coinvolge nella sua spirale sempre più gente e che si sta trasformando da conflitto politico, che forse ha ancora una qualche piccola possibilità di venir risolto, in conflitto religioso, fondamentalista e di conseguenza irrazionale e primordiale. Conflitti di questo tipo, per la loro stessa natura, continuano a lungo e sono di difficilissima soluzione. Nel corso degli anni varie persone ed organizzazioni, sia israeliane che palestinesi, hanno tentato in modo quasi disperato di arrivare ad una soluzione del conflitto, mentre era ancora nella sua fase politica: l’idea che stava dietro questo sforzo immane era appunto che non si poteva consentire che sfociasse nell’irrazionalità e nel fondamentalismo ».

La Città Santa per le tre religioni è il simbolo di questa tempesta? «Ciò che oggi vediamo a Gerusalemme, giorno per giorno e quasi ora per ora, è un pericolosissimo precipitare nella dimensione del fanatismo e dell’irrazionalità. Sarà quindi molto più difficile adesso che in precedenza cercare una soluzione del conflitto e forse ciò dovrebbe essere il motivo e la spinta per i leader dei due popoli di agire subito e con la massima potenza, iniziando un processo di dialogo fra loro, invece di insultarsi e incolparsi a vicenda, incitando ancora di più all’odio».

C’è il pericolo di un contagio con le altre crisi della regione? «Certo, e si vede anche come l’estremismo barbaro venuto dall’Is, che ha introdotto dei modi di operare del tipo di quello di cui oggi siamo stati testimoni — persone che vengono uccise a colpi di accetta, in modo davvero bestiale — sta infiltrandosi nel conflitto israelo-palestinese. Era quasi possibile prevedere che sarebbe successo, poiché la nostra è una situazione così irrisolta, così carica di emozioni, che quando si concretizza un determinato modus operandi nelle nostre immediate vicinanze, i fanatici locali lo adottano immediatamente. Posso quindi dirle che provo la stessa repulsione e lo stesso sgomento che provai 20 anni fa, quando nel febbraio del 1994, Baruch Goldstein assassinò a Hebron 29 fedeli musulmani nella moschea della Tomba dei patriarchi».

Oltre alla evidente responsabilità dei due attentatori, lei ritiene che ci siano anche responsabilità politiche nell’accaduto? «Sì, ritengo che una grande responsabilità di questi assassinii, da una parte e dall’altra, pesi sulle spalle di coloro che non hanno fatto praticamente nulla per cambiare la situazione, o, nel migliore dei casi, hanno fatto molto poco: coloro che parlano solo e soltanto con il linguaggio della forza, coloro che non fanno altro che far crescere la piena dell’odio fra i due popoli, coloro che, in definitiva, disperano a priori e portano alla disperazione il proprio popolo, negando ogni possibilità di arrivare ad un accordo. Costoro condannano i loro compatrioti ad azioni dettate dalla disperazio- ne e dall’odio. Né Abu Mazen né Netanyahu sono responsabili della catena di assassini degli ultimi tempi e certamente nessuno dei due li ha voluti, ma la loro inazione e la loro mancanza di sforzi porta a questa situazione. Il fatto stesso che già da molti mesi, per non parlare degli ultimi 47 anni, non sono stati fatti seri tentativi di risoluzione della situazione, porta ad una escalation della stessa».

È l’immobilismo il primo nemico per la soluzione della crisi israelopalestinese? «Sì, invece di andare avanti, di cercare nuove vie di dialogo, di rimuovere ogni ostacolo per raggiungere punti di accordo possibili e di questi ce ne sono parecchi, vediamo specie in questi giorni, come il conflitto in cui ci troviamo precipita indietro nel tempo, diventa sempre più brutale, sempre più selvaggio. Le stesse armi usate, coltelli e accette, testimoniano il ritorno ad una guerra tribale. I leader dei due popoli, quando ancora era possibile evitare tutto ciò, non hanno fatto nulla. Anzi hanno commesso ogni errore possibile, usato ogni scusa possibile per non parlare e per non arrivare ad un compromesso. E perciò temo che ora, tutti noi dovremo affrontare un periodo molto difficile».

È in arrivo una Terza Intifada? «Da persona che è nata qui e vive qui già da molti anni, conosco molto bene i meccanismi della violenza, come sia facile scatenarla e quanto sia difficile quietarla. La tradizione ebraica, come ha ripetuto il rabbino capo di Israele, vieta agli ebrei l’ascesa al Monte del Tempio, dove oggi sorgono le Moschee. Nel rispetto di questa tradizione, che non è una legge dello Stato, ma un precetto religioso accettato dagli ebrei di ogni generazione sin dalla distruzione del Tempio nel 70 d.C., si è venuto a creare uno status quo che è stato rispettato anche dai governi dello Stato d’Israele. Ariel Sharon, con la sua “passeggiata” provocatoria nel 2000, ha scatenato la seconda Intifada. Oggi vediamo che nuovamente esponenti politici di destra salire sulla Spianata, nel preciso intento di creare una provocazione. Si tratta di un atteggiamento bellicoso, irresponsabile e pericoloso, che può soltanto aggravare una situazione già di per sé esplosiva e portarci sull’orlo del precipizio».

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