Le tre vite di Moses Dobrushka
Gershom Scholem
Adelphi euro 22,00
Il 5 aprile 1794, Sigmund Gottlob Junius Frey è ghigliottinato, insieme a Danton e ad altri, nella piazza della Rivoluzione per cospirazione contro la Repubblica, pur proclamandosi innocente e strenuo difensore della libertà — come il nome di Junius, datosi in onore dell’eroe romano Junius Brutus, lascia immaginare. Tale nome era in realtà il terzo che egli aveva assunto dopo quello, originario, di Moses (Levi) Dobrushka e l’altro, successivo, di Franz Thomas von Schönfeld. Ciascuno di essi aveva ricoperto, come una maschera cangiante, il suo volto sfuggente. Nelle fasi diverse della sua vita avventurosa — di ebreo convertito, seguace di un ordine massonico di orientamento kabbalistico, di letterato fedele suddito dell’imperatore austriaco e, infine, di fervente giacobino, autore di una Filosofia sociale dedicata al popolo francese. Nipote acquisito del profeta eretico Jacob Frank al punto di apparirne il successore, legato all’alta borghesia austriaca di cui condivideva gli interessi finanziari, austero esperto di dottrine teosofiche, ma non alieno dai piaceri della carne, illuminista e mistico, chi era in realtà quest’uomo nato in Moravia nel 1753 e morto, quarantenne, sul patibolo? Una risposta, tutt’altro che conclusiva, a questa serie di domande è fornita dal grande ebraista Gershom Scholem, nell’edizione italiana del saggio inedito Le tre vite di Moses Dobrushka , edito da Adelphi con una dotta e brillante postfazione di Saverio Campanini. Si tratta della stesura ampliata di una conferenza pronunciata a Parigi nel 1979 su invito dello storico della Rivoluzione François Furet, che conclude, sia pure in forma aperta e problematica, una ricerca complementare ai fondamentali studi sulle sette ebraiche avviati da Scholem alcuni decenni prima. E si situa al punto di tensione tra esoterismo e illuminismo cui, attraverso un percorso accidentato e ricco di pieghe, perviene il movimento, insieme mistico e nichilista, fondato da Shabbatay Zevi nel Seicento e proseguito, nel secolo seguente, dal successore Jacob Franck. Moses Dobruschka, figlio della cugina di Jacob, ebbe la classica educazione rabbinica, ma insieme fu iniziato alla fede sabbatiana. Intrapresa la carriera letteraria con il nome di Franz Thomas von Schönfeld, si convertì esteriormente al cristianesimo, come altri adepti, rimanendo però fedele al proprio credo segreto. Stabilitosi a Vienna, fu introdotto nei circoli illuminati lealisti verso Giuseppe II, entrando in contatto con scrittori come Klopstock, Gleim, Ramler e Voss. Fu allora che aderì alla società massonica dei Fratelli Asiatici, di tendenza esoterica ed occultista, in una sorta di singolare miscela di razionalismo e misticismo, espressa dal doppio triangolo della Stella di David e del Candelabro a sette braccia. Spostatosi in Francia con il nome di Junius Frey, senza rinunciare alla radice kabbalistica, secolarizzò la propria prospettiva in senso politico, accostandosi agli ambienti rivoluzionari giacobini. Tuttavia la sua personalità controversa destò presto sospetti, tanto da essere accusato di spionaggio a favore degli austriaci con l’intenzione di salvare Maria Antonietta dalla ghigliottina, sotto la cui lama finì egli stesso insieme ai fratelli e al cognato, il deputato Chabot. I pareri sulla sua effettiva posizione — di patriota repubblicano o di traditore della Francia — divergono. Scholem, influenzato anche dall’accorata protesta di innocenza lasciata al figlio insieme allo scritto sulla Filosofia sociale , propende per la prima tesi, ritenendo possibile la commistione tra l’anima sabbatiana e quella rivoluzionaria, Nel saggio, incluso nella presente edizione, sulla Metamorfosi del messianismo eretico sabbatiano in nichilismo religioso l’autore individua il punto di possibile convergenza in un messianismo fin dall’inizio orientato in direzione rivoluzionaria e anche anarchica. Al centro della dottrina di Frank vi è la tesi, di matrice gnostica, secondo cui il mondo in cui viviamo non è stato creato da Dio, ma da un suo alter ego demoniaco alle cui leggi occorre sfuggire, infrangendole anche attraverso atteggiamenti apparentemente peccaminosi. Da qui la tesi, più tardi fatta propria da Bakunin, che «la distruzione è una forza creativa». Ciò spiega la compresenza di mistica e sovversione sul pubblico e di fede e vita dissoluta su quello privato. «I soldati della fede — sostiene Frank, sempre affascinato da immagini guerriere — non possono scegliere per quale via penetrare nella fortezza. Se necessario devono esser pronti a percorrere le fognature più immonde». Nella sua sapiente postfazione Campanini, ricostruendo la storia del testo e anche l’ambiente in cui fu elaborato da Scholem, avanza qualche riserva sulla sua interpretazione innocentista — per un trasformista di mestiere del calibro di Moses farsi credere innocente per il prestigio proprio e degli eredi era tutt’altro che impossibile. Ciò non revoca in causa il procedimento dialettico di Scholem, teorizzato già nel 1937 nello scritto La redenzione attraverso il peccato ( edito, sempre da Adelphi, nel suo libro L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica ). Tale dialettica passa per il concetto antinomico di “pia colpa” o di “casta meretrix”, termine rivolto al “messia femmina” Eva Frank, ma anche alla Chiesa nel suo complesso: la disattivazione della legge è l’unico modo di operare senza cedere al male prima della venuta del Messia. Un’idea non lontana dalla prospettiva paradossale di Kafka e dal pensiero di Benjamin, incrociati da Scholem anche attraverso la frequentazione di Max Brod. Ma non estranea neanche alla dialettica negativa di Adorno, che infatti teorizza la compresenza di illuminismo e mito. Tale conclusione, assunta da Scholem come chiave esplicativa della concezione sabbatiana, fu contrastata, per esempio da Jacob Taubes, come una punta avvelenata nel cuore dell’ebraismo. Se qualcuno è arrivato ad avvicinare la dottrina di Frank all’hitlerismo, Lukács ha visto nel suo nichilismo il nucleo segreto del comunismo. Ma ciò che, poco prima della morte, Scholem cercava nelle infinite metamorfosi di Moses Dobrushka era probabilmente qualcosa di più che la verità su una figura controversa. Era uno specchio deformante in cui rinvenire il tratto più estremo della propria inquietudine.
Roberto Esposito - La Repubblica