Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, a pag. 32-33, con il titolo "Arafat, mio marito", l'intervista a Suha Arafat di Anais Ginori; a pag. 33, con il titolo "Kefiah, ricordi e rabbia tra i palestinesi senza leader tentati dalla lotta armata", l'analisi di Fabio Scuto.
Arafat: parole di pace, ma i fatti...
L'intervista di Anais Ginori alla ex moglie di Yasser Arafat assume dei toni strazianti e sovraccarichi di pathos, così da cercare per questa via la riabilitazione del capo di una organizzazione come l'Olp responsabile di attacchi terroristici.
Inoltre Suha Arafat, che ben si guarda dal vivere nei territori palestinesi, anche perché gran parte della miliardaria eredità di Arafat è finita sui suoi conti bancari, coltiva l'idea del grande complotto. Non indica in Israele il responsabile, ma lascia che il dubbio aleggi.
Se la Palestina oggi non è uno Stato la prima responsabilità è proprio del troppo compianto Arafat, che rifiutò tutte le offerte di pace proposte dai governi israeliani negli anni '90 e dopo.
Quando il discorso cade su Hamas, la vedova di Arafat non può che accusare l'organizzazione terroristica islamista del genocidio della popolazione di Gaza, oppressa da un regime clericofascista che non lascia spazio ad alcuna libertà. Ma il fatto che sia nemica di Hamas, non esclude le responsabilità del'Anp.
Sulla malattia di Arafat, come è stata occultata la verità, e altre notizie sul Rais, andare in home page, a sinistra in alto, scrivere 'arafat'.
Intervista di Anais Ginori a Suha Arafat: "Arafat, mio marito"
Anais Ginori Suha Arafat con il ritratto del marito
«Tanti dicevano he mio marito fosse un ostacolo alla pace. Abbiamo visto, dopo la sua morte, che fine ha fatto la pace». Suha Arafat non si rassegna nel vedere i "fratelli" palestinesi combattersi anche nel giorno in cui si commemora Abu Ammar, nome di battaglia di Yasser Arafat, morto l'11 novembre 2004 nell'ospedale di Percy, vicino Parigi.
È stato un anniversario di sangue a Gaza e in Cisgiordania. Hamas ha vietato le celebrazioni nella Striscia, dirigenti ed edifici di Fatah sono stati attaccati. «Mio marito è stato l'unico capace di unire le diverse fazioni palestinesi», sottolinea al telefono Suha che vive a Malta con la figlia Zahwa, nata nel 1995, dopo il matrimonio con Arafat. Avevano trentaquattro anni di differenza, lei era la sua segretaria e traduttrice. «L'ho amato e mi ha amato molto. Ma se tornassi indietro non sono certa che lo rifarei — racconta — ho subito tante maldicenze e ingiustizie. Anche adesso che sono vedova e sola continuano a inventare storie su di me».
È stata accusata di aver sottratto fondi dell'Autorità palestinese e di vivere nel lusso. «Avevano anche detto che non ero con lui all'ospedale mentre stava in coma. Per fortuna, c'erano i medici testimoni. Avrei potuto fare cause, ma mio marito mi ha insegnato che non bisogna curarsene». Il rais riposa nel mausoleo eretto alla sua memoria nella Muqata che negli ultimi anni divenne la sua prigione.
Qual e l'ultima immagine che conserva di Arafat? «Ho passato quindici giorni al suo capezzale. Cercavo di risvegliarlo dal coma, parlandogli. Leggevo dei versetti del Corano. Gli ho messo in mano una medaglia della Vergine miracolosa della rue du Bac, a Parigi, in cui io credo molto. Aveva evitato la morte così tante volte. È scampato ad attentati e tentativi di omicidio di ogni tipo. Ero convinta che ce l'avrebbe fatta anche questa volta. Le ultime parole le ha dette a Zahwa, che aveva nove anni».
È convinta che sia stato vittima di un omicidio politico? «In base ai prelievi che sono stati fatti sulla salma, gli esperti svizzeri hanno evidenziato una dose eccessiva di polonio che potrebbe aver causato la morte. I periti francesi sostengono invece che le tracce di polonio vengono da una contaminazione esterna. La magistratura sta ancora indagando. Ho fiducia che la giustizia francese troverà la verità».
E chi avrebbe avvelenato il leader palestinese? «Molti volevano sbarazzarsi di lui. Non posso accusare nessuno, né Israele, né altri nel cerchio di persone vicine a lui».
Abbas ha implicitamente accusato Mohamed Dahlan, l'ex leader di Fatah a Gaza. «Sono due leader palestinesi che rispetto. Sono amica di entrambi. Non vorrei che l'inchiesta sulla morte di Arafat venga usata come mezzo di battaglia politica. Dobbiamo lavorare per una riconciliazione nazionale. La nostra è ancora una società tribale, in cui le vendette possono durare per generazioni».
Perché ha incominciato a cercare laverità solo otto anni dopo la morte? «Avevo dei sospetti. Arafat è morto di un'infezione intestinale senza avere mai avuto febbre. Ma è accaduto tutto in modo veloce. È solo grazie a un giornalista di Al Jazeera che nel 2012 ho incominciato a vedere le troppe incongruenze e le analogie con l'avvelenamento al polonio di Alexandre Litvinenko, avvenuto nel 2006».
Dieci anni dopo, cosa rimane delle sue lotte? «Mio marito soffrirebbe nel vedere com'è ridotto il nostro paese. Siamo divisi come tutto il mondo arabo. Arafat aveva trasformato la Palestina in un paese laico, la gente andava in spiaggia a Gaza. Non avrebbe mai immaginato che potesse diventare uno Stato islamico. Mi ricordo quando George Bush diceva che bisognava dialogare con una nuova generazione di leader palestinesi. Gli americani sono stati accontentati: ora se la vedono con Hamas».
E a Gaza i palestinesi ieri non hanno potuto ricordare Arafat. «Hamas non aveva il diritto di vietare le celebrazioni per la morte di Arafat. È inaccettabile. E comunque niente e nessuno può cancellare il ricordo di Arafat. È nel cuore di tutti i palestinesi».
La leadership di Abbas è troppo debole? «È un uomo di buona volontà. Non è facile prendere il posto di Arafat. Chiunque si sentirebbe inadeguato. Mi sono sempre chiesta dove mio marito trovasse tutta quella energia. È stato l'unico che ha riunito tutte le fazioni palestinesi nell'Olp. Sapeva dare una linea e farla rispettare. Quando ha deciso di riconoscere Israele, è stato criticato, ma è andato avanti, si è preso le sue responsabilità».
Ma ha anche lanciato l'Intifada. L'eredità di Arafat è tornare alla "resistenza armata", come sostiene dal carcere Barghouti, l'ex capo delle milizie di Fatah? «La Storia dirà se Arafat ha fatto bene a dichiarare l'Intifada. Ora però abbiamo milioni di profughi. Bisogna proteggere i nostri bambini. È facile fare la guerra, difficile fermarla. La lotta armata oggi non porterebbe più a niente. Finiremo solo schiacciati. Le forze in campo sono impari. Dobbiamo continuare nei negoziati , dimostrando semmai che è Israele che non vuole la pace».
Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Svezia è un segnale incoraggiante? «Spero che l'Italia farà altrettanto. Federica Mogherini ha detto delle cose giuste a proposito della causa palestinese. Ricordo una foto di lei giovane alla Muqata, in un incontro con Arafat. Il vostro premier, Matteo Renzi, dovrebbe esprimersi più chiaramente in favore dello Stato palestinese. E ovviamente nessuno di noi deve mettere in discussione l'esistenza dello Stato di lsraele».
Ma non è la posizione di Hamas. «Hamas ha preso un popolo in ostaggio. Quando vedo quello che sta accadendo a Gaza... È un genocidio. Una generazione che sta crescendo nella violenza, senza istruzione, con l'unica speranza di emigrare. Spero che Hamas finalmente capisca e si adoperi per i negoziati di pace».
Zahwa Arafat ha conosciuto poco suo padre. Come le parla di lui? «Dal punto di vista politico ne sa quasi più di me. È iscritta alla facoltà di Scienze Politiche. Studia i libri di storia, imparando molte cose su suo padre. È un leader internazionale che verrà ricordato al pari di Fidel Castro e Che Guevara».
Perché non torna in Palestina? «Non riesco a immaginare di andare in Palestina, specialmente a Gaza, come fossi un'ospite. Sono a casa mia. E fino a quando non sarà possibile essere accolta in queste condizioni, non andrò».
Fabio Scuto
Fabio Scuto: "Kefiah, ricordi e rabbia tra i palestinesi senza leader tentati dalla lotta armata"
Fabio Scuto opera una rivalutazione complessiva della figura di Yasser Arafat, un terrorista che più volte ha rifiutato ogni offerta di pace proposta da Israele e che è responsabile di decenni di terrorismo e guerra ai danni di Israele e degli ebrei.
Anche questo pezzo si fa forte di una immagine fallace dell'ex dell'ex capo dell'Anp, quella che lo vorrebbe un rivoluzionario, se non addirittura un partigiano.
Ecco il pezzo:
E' un tripudio di lacrime, canti e bandiere. I nostalgici hanno tirato fuori dalla naftalina la kefiah a scacchi neri che nessuno della nuova dirigenza palestinese ha mai indossato, nemmeno Abu Mazen. I pragmatici hanno scelto invece i cappellini gialli con la visiera e il simbolo di Fatah. Ci sono numerose scolaresche venute da diverse zone della Cisgiordania, le associazioni di categoria, semplici cittadini. Molti, come fosse un santino, hanno in mano una foto di Yasser Arafat e rivolgono lo sguardo alla gigantografia che domina da dietro il palco tutta la piazza come per confrontarlo. Lui, l'icona della causa palestinese, nel grande ritratto è preso di profilo con kefiah che sapeva manipolare in modo da avere la forma della mappa della Palestina come negli anni ha manipolato quasi tutto quel che lo circondava.
La vita e il mistero sulla morte ne hanno consolidato l'immagine di Abu Ammar. Ha lasciato un'eredità mista di violenza, terrorismo, conquista politica e una leggenda che ha colpito la fantasia di sostenitori e detrattori di tutto il mondo. Era un uomo di un carisma intenso e grande fascino, di carattere duro e ambizioni insondabili. Ed è questo l'Arafat che piace ricordare a questa folla, certamente meno numerosa di quella che gli tributò l'ultimo saluto dieci anni fa. In attesa di un leader futuro, i palestinesi rivolgono così lo sguardo verso il passato. Perché il presente è fatto di divisioni, lacerazioni, odi interni che spaccano il campo palestinese. «Se c'era ancora Abu Ammar, tutto questo non sarebbe mai successo, Gaza e Cisgiordania sarebbero ancora unite», quasi sussurra Imad Rahadi, un vecchio militante di Fatah. Esprime così un sentimento diffuso nella piazza: nessuno degli attuali leader palestinesi può eguagliare la posizione unica di Arafat nella storia palestinese.
Ne è consapevole il presidente Abu Mazen che oggi ama più ricordare il compagno di lotte in gioventù che non l'Arafat che quando era premier lo mise alla porta nel 2003. Quando il rais partì su quell'elicottero giordano per il lungo viaggio verso la clinica militare di Parigi dove morì di un male che 54 emeriti medici francesi non hanno saputo diagnosticare, erano sei mesi che non si rivolgevano la parola. L'Abu Mazen che sale sul palco non vuole tirarla lunga sui ricordi nel suo discorso e incalza subito con la tremenda attualità puntando il dito di accusa prima contro Hamas che mina alla base la riconciliazione e la ricostruzione nella Striscia di Gaza, poi contro Israele. Hamas che ha vietato ogni celebrazione per l'anniversario di Arafat nella Striscia, è accusato di essere dietro gli attacchi dinamitardi che la scorsa settimana hanno preso di mira dirigenti di Fatah a Gaza. «La condotta di Hamas a Gaza e in Cisgiordania danneggia seriamente gli sforzi di ricostruzione nella Striscia, e non indica che il movimento è pronto per la riconciliazione e l'unità nazionale», ha detto chiaramente il presidente.
Abu Mazen ha poi accusato Israele di voler trasformare la crisi israelo-palestinese in «una guerra religiosa» permettendo ai fedeli ebrei di visitare la Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Quelle visite, accusa il presidente, sono provocatorie e i fedeli palestinesi difenderanno il luogo, sacro per ebrei e musulmani. Ai fedeli ebrei è permesso visitare la Spianata in occasione di particolari festività, ma non di pregare. L'aumento del numero delle visite, specie quelle dei colleghi di partito del premier Netanyahu, ha provocato scontri e sollevato il timore che Israele stia pensando di estendere la sua sovranità anche sulla Spianata. Queste visite, l'annuncio di centinaia di nuove abitazioni negli insediamenti oltre la Linea Verde hanno innescato nei quartieri arabi di Gerusalemme tensioni fortissime che sfociano quotidianamente in guerriglia urbana, e che hanno portato a cinque attacchi terroristici nelle ultime settimane. Sono "lupi solitari", killer che agiscono da soli investendo con l'auto i passeggeri alla fermata dei bus o a colpi di coltello i passanti come lunedì scorso a Tel Aviv e Gush Etzion. La paura del terrorismo è tornata e si vede negli occhi della gente per strada a Gerusalemme, dove è sufficiente uno stridio di gomme per seminare il panico sui marciapiedi. Lo spettro della terza intifada si fa sempre più visibile, le violenze sono già dilagate anche nelle città arabe d'Israele, in comunità che mai finora erano state coinvolte.
E allora perché aspettare, sembra chiedere Marwan Barghouti, lo storico leader dei giovani Tanzim di Fatah in una cella israeliana con cinque ergastoli, in una lettera pubblicata dalla stampa araba, «la resistenza armata contro l'occupazione è l'eredità di Yasser Arafat». "L'ora della libertà e dell'indipendenzaè arrivata", annuncia un manifesto gigante sui muri della Muqata. Quella che Abu Mazen, dopo venti anni di negoziati diretti con Israele, adesso vuole dalle Nazioni Unite alla fine del mese con la risoluzione che riconosca la Palestina entro le frontiere del 1967 e fissi un tempo per il ritiro da questi Territori. Ma la pace richiederà concessioni, sui rifugiati, su Gerusalemme, sui confini, sulla sicurezza e sugli insediamenti. Arafat avrebbe potuto convincere il suo popolo e fare quelle concessioni. Ma non l'ha fatto e oggi non c'è nessuno nel campo palestinese con la statura o il coraggio per prendere le decisioni necessarie per porre fine al conflitto. Dieci anni dopo la sua morte, Mr. Palestine ancora continua a dominare la scena. Forse era impossibile fare la pace con lui, adesso si scopre che forse è impossibile farla senza di lui.
Per inviare la propria opinione a Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante