Arafat, profilo di un terrorista Ma per Antonio Ferrari fu un 'leader rivoluzionario'
Testata: Corriere.it Data: 12 novembre 2014 Pagina: 1 Autore: Antonio Ferrari Titolo: «Dieci anni senza Arafat»
Riprendiamo da CORRIERE.IT, l'edizione online del Corriere della Sera, un lungo reportage sulla figura di Yasser Arafat, dal titolo "Dieci anni senza Arafat", firmato da Antonio Ferrari.
Richiamarsi ad Arafat significa propugnare il terrorismo contro Israele
Già dal titolo traspare il rimpianto espresso dall'articolo per la scomparsa, dieci anni fa del terrorista Yasser Arafat, a lungo punto di riferimento per quanti hanno cercato - senza successo - di distruggere Israele. Ma Arafat è stato anche per quarant'anni il capo dell'OLP/Fatah, movimento dedito ad attentati verso la popolazione israeliana. Un terrorista, insomma, con l'aggravante dell'ipocrisia allorché finse di volere la pace, rifiutando di fatto tutte le proposte israeliane, inclusa l'offerta di pace di Barak, di Olmert che prevedevano la concessione del 98% dei territori persi dagli arabi nel 1967. Eppure secondo il patetico articolo di Antonio Ferrari Arafat fu un "leader rivoluzionario". Complimenti. Cosa sarebbe cambiato se Arafat fosse ancora in vita, si chiede l' "esperto" ? Risposta semplice: nulla, visto che il suo successore a capo dell'Anp appoggia e invoca il terrorismo, esattamente come il suo predecessore.
Segue l'articolo, con due immagini scelte fra le molte che illustrano su Corriere.it il servizio di Ferrari, delle vere paginate in lode di Arafat, nemmeno il Manifesto è mai arrivato a una tale celebrazione !
Che cosa sarebbe cambiato, nel Medio Oriente e soprattutto in Palestina, se Yasser Arafat fosse ancora vivo? Domanda probabilmente oziosa, perchè nessuno può dire se nei dieci anni che sono trascorsi dal giorno della morte del leader, l’11 novembre 2004, i palestinesi avrebbero risolto i loro problemi. Nessuno può dirlo, perchè un conto è ricordare il presidente angosciato, sofferente, sospettoso e incattivito degli ultimi mesi, quando viveva assediato, fuori dai nemici e dentro dagli ex amici, nel bunker della Mukata di Ramallah; un altro è immaginare che cosa avrebbe potuto inventare un Arafat ancora decisamente in sella per sparigliare le carte e rilanciare una causa che, piaccia o no, continua a portare il suo nome, la sua immagine, la sua grinta, la sua volontà, la sua inarrestabile determinazione, e anche la sua celeberrima ambiguità.
Yasser Arafat entra trionfante a Gaza il 1º luglio 1994 per la prima volta dopo oltre venticinque anni
Arafat era la bandiera palestinese, pur essendo un pasticcione. Tuttavia, conosceva come pochi altri i trabocchetti e i tentacoli del Medio Oriente, e poi sapeva come confrontarsi con la controparte israeliana. La conosceva e l’aveva soppesata sicuramente meglio dei suoi tanti nemici interni, ex “colonnelli” che non sopportavano più il regine autocratico e dittatoriale del loro condottiero e tramavano per neutralizzarlo. Forse per eliminarlo.
Il leader aveva qualità e difetti, come tutti, ma era soprattutto un empirico. Si inventava la strategia giorno dopo giorno. Anzi, ora dopo ora. In particolare nelle ore notturne, quando la resistenza dei suoi interlocutori si era pericolosamente indebolita. Da climaterico e da emotivo, facile alla commozione, con la lacrima in tasca, ma pronto ai più imprevedibili scatti d’ira, dava appunto il meglio di sè nell’improvvisazione. Insomma, era l’esatto contrario del suo successore Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen, che potremmo definire un gentiluomo di altri tempi. Un esempio per tutti. Pochi giorni fa, commentando l’attentato di Gerusalemme compiuto da un estremista palestinese, probabilmente un integralista di Hamas, il primo ministro israeliano Benjamin Netaniahu ha accusato apertamente Abu Mazen. Eppure lo stesso Netaniahu, alla fine della recente e sanguinosa guerra di Gaza, aveva detto che l’unico leader che riconosceva e con cui intendeva trattare è Abu Mazen, esortandolo caldamente a condurre i destini dell’intero popolo palestinese. L’attuale presidente dell’Anp, cioè dell’Autorità nazionale palestinese, con il suo tono soft (se infatti facesse il duro risulterebbe poco credibile) ha reagito prudentemente, prevedendo le piroette dialettiche del discusso premier di Israele. Arafat, per contro, avrebbe creato uno sconquasso, alzando i toni e attirando l’attenzione dei mass media, pronto a restituire, con gli interessi, ogni attacco al mittente.
In buona sostanza, oggi dobbiamo prendere atto di una doppia e amara verità: la ripartenza del processo di pace è praticamente esclusa, e anche la soluzione dei due Stati, che all’inizio degli anni ’90 pareva realizzabile, è quasi tramontata.
Arafat tiene una conferenza stampa a Tunisi dopo il bombardamento da parte delle forze aeree israeliane del quartier generale dell’OLP nel 1985. Il leader palestinese si è miracolosamente salvato, ma non è l’unica volta che è scampato alla morte: nel 1992 è uscito illeso da un aereo precipitato nel Sahara libico ed è sopravvissuto ad altri due attentati, nonché al ribaltamento della propria autovettura sulla strada per Baghdad, uscendone anche in questi casi senza nemmeno un graffio.
Che la scomparsa di Arafat, dieci anni fa, fosse un evento che poteva condizionare il futuro del popolo palestinese era chiaro a tutti. Anche nei momenti più delicati, quando la sua leadership sembrava sbrecciata dal suo stesso egoismo, Arafat pareva insostituibile. Non aveva mai creato un vero delfino, perchè gli piaceva troppo l’idea dell’uomo solo al comando. Aveva però avuto l’astuzia di crearsi una specie di circolo magico bipolare: con una destra moderata e una sinistra incalzante e aggressiva, pretendendo di collocarsi al centro. Per anni, quando decideva di andare all’attacco, mandava avanti Khalil el Wazir, detto Abu Jihad, stratega della prima intifada (rivolta delle pietre), prima d’essere ammazzato a Tunisi da un commando israeliano; quando puntava sulle soluzioni diplomatiche, spingeva in prima linea i felpati Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Ahmed Qorei (Abu Ala), oppure l’ottimista Nabil Shaat. Ovviamente, alla fine, era sempre lui a dire l’ultima parola, a rilasciare interviste, a formulare previsioni, a sconcertare alleati e avversari.
Arafat amava comandare fin da bambino. Al Cairo, metteva in riga i compagni di scuola, e li faceva marciare, pronto a bacchettarli sulla testa se rompevano le righe o disturbavano l’irregimentata armonia dell’infantile sfilata pseudomilitare. E poi aveva una dote straordinaria: non passare mai inosservato. Numerosi analisti e studiosi, che si sono cimentati nell’analizzare l’immagine e il carattere del fondatore dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), sono arrivati alla conclusione che anche la decisione di indossare la keffiah aveva un doppio obiettivo: uno privato e l’altro strategico. Nascondere l’incipiente calvizie d’accordo, ma soprattutto diventare inconfondibile nelle foto ufficiali dei vari summit. In pratica, anche leader celebrati in giacca e cravatta potevano non essere riconosciuti, eccetto lui, che gli americani chiamavano Mr. Palestine.
E’ stato di sicuro un leader rivoluzionario e un instancabile combattente, che non si allontanava mai dalla prima linea, quella del fuoco, anche se – per il suo ruolo di comandante- preferiva ordinare piuttosto che sparare. Durante l’assedio di Beirut, dove l’Olp aveva creato uno Stato nello Stato imbarazzando il governo libanese, sfidava agguati e trappole per presentarsi all’improvviso ai giornalisti, quasi sempre nel cuore della notte e con meno di un’ora di preavviso. Un pomeriggio, non lontano da Tripoli del Libano, ai margini del campo-profughi di Beddaoui, si presentò a noi inviati, sistemandosi sotto il costone di un edificio, mentre i suoi fratelli palestinesi che avevano deciso di tradirlo, riparando in Siria alla corte di Hafez al Assad, sparavano ai fedelissimi del leader.
Credo, se la memoria non mi inganna, d’aver incontrato e intervistato Arafat almeno 25 volte: a Tunisi, Algeri, Fez, Casablanca, Belgrado, Kuwait City, Amman, Bagdad, Cairo, Alessandria, Beirut, Gaza, Ramallah, Atene, Roma, Berna, Davos, Cernobbio, Londra. Ma non sempre ne ho scritto, soprattutto quando il presidente palestinese si rifugiava negli slogan più reiterati e noiosi, e non c’era verso di strappargli una notizia. Però era necessario incontrarlo, perchè la sorpresa era sempre possibile. Re Hussein di Giordania non lo amava, anzi una volta l’aveva accusato d’essere un serpente velenoso. Atteggiamento comprensibile, anche perchè Arafat aveva attentato al suo trono. Il padre di Bashar, Hafez al Assad, lo avversava apertamente. E anche Arafat dava giudizi durissimi sul presidente siriano. Però, in due occasioni ravvicinate, mi aveva dato due risposte diametralmente opposte. La prima volta aveva definito Hafez “un killer”, la seconda volta “un brother”, cioè un fratello. Chiesi ragione dell’ossimoro. Arafat, senza minimamente scomporsi, disse: “Beh, Assad è insieme un killer e un fratello”.
Aveva un’innata teatralità. Ad Algeri, negli anni più duri del conflitto arabo-israeliano, quando per la prima volta fu eseguito in un vertice pubblico l’inno palestinese (Patria mia), rimase in piedi, irrigidito nel saluto militare, per due minuti buoni alla fine dell’esecuzione. Fino a quando i congressisti si decisero a tributargli un fragoroso applauso. All’Assemblea generale dell’Onu, nel novembre 1974 a New York, si presentò con la pistola e il ramoscello d’ulivo. Ma a un’altra Assemblea generale, convocata a Ginevra nel 1988, visto che non gli era stato concesso il visto americano, rivolse ai governanti israeliani un accorato appello: “Venite, diamoci la mano, facciamo la pace”.
Si stavano lentamente creando le condizioni per quella che sarebbe stata davvero la svolta, che molti ottimisticamente ritenevano decisiva e definitiva. La vittoria di Yitzhak Rabin alle elezioni israeliane e la strategia, fortemente condivisa da Shimon Peres, di riconoscere l’Olp e di incamminarsi verso la soluzione dei due Stati – Israele e Palestina- sembrava possibile. Arafat, che ha sempre adorato i segreti e le missioni impossibili, accettò la sfida. Due delegazioni, in rappresentanza delle rispettive parti, si trovarono lontanissimo dal Medio Oriente, in una casa norvegese, in mezzo a un bosco, circondati dalla neve e dalla più assoluta discrezione. La dichiarazione di principio fu approvata e, nel settembre 1993, nel giardino delle Rose, alla Casa Bianca, Rabin e Arafat si strinsero la mano, davanti ad un compiaciuto Bill Clinton che, allargando le braccia, idealmente abbracciava entrambi.
L’uomo che voleva abbattere e annientare Israele era diventato un partner realista e affidabile. I protagonisti di quella storica svolta ottennero il Nobel. Arafat era accolto festosamente dappertutto come un protagonista, come l’uomo che dopo una vita di guerra aveva scelto di fare la pace con il nemico. All’inizio furono restituite ai palestinesi la biblica Gerico e la Striscia di Gaza, ma il piano prevedeva che -dopo un periodo di assestamento – sarebbe arrivato il resto della Cisgiordania.
Vi erano serie difficoltà, ma la volontà di procedere e la determinazione sia di Rabin sia di Arafat sembrava la migliore garanzia. L’estrema destra israeliana e i coloni più radicali rifiutavano l’accordo, che era avversato ovviamente anche dai palestinesi più fanatici. La svolta di pace si frantumò all’inizio di novembre del 1995, quando un terrorista ebreo, Ygal Amir, sparò al primo ministro Rabin, ammazzandolo. Arafat, tre giorni dopo, uscì di nascosto, nel cuore della notte, dalla sua villa di Gaza, e raggiunse con un accomopagnatore-in abiti civili e senza keffiah- il centro di Tel Aviv, per andare a porgere le condoglianze a Leah, la vedova del “mio coraggioso partner di pace”.
E’ chiaro che la morte di Rabin fu un colpo micidiale, e le successive elezioni israeliane videro la vittoria a sorpresa di Benjamin Netaniahu, sostenuto da tutta la destra contraria agli accordi di Oslo. Mentre il fronte della pace sperava in Shimon Peres, Bibi si affermò per poche migliaia di voti. Il giorno dell’elezione, andai a casa dei genitori dell’assassino di Rabin. La famiglia di Ygal Amir tifava apertamente (con tanto di brindisi) per Netaniahu.
Ma non era soltanto Israele ad aver cambiato strada. Già alla fine del ’90 e all’inizio del ’91, Arafat, senza alcun acume politico, si schierò con Saddam Hussein, che aveva invaso di Kuwait. Il passo, che costò l’espulsione dall’emirato di tutti i palestinesi che vi risiedevano (e tra essi la famiglia della futura regina Rania di Giordania), fu però perdonato ad Arafat, che nell’estate del 2000 fu invitato a Camp David dal presidente Clinton, per incontrare il neopremier israeliano Ehud Barak, e raggiungere finalmente la pace. Fu un fallimento, seguito da un altro fallimento a Taba, e dal fragoroso avvio della seconda e sanguinosissima intifada.
Quel che è accaduto dopo è la triste storia di un disastro: umano e politico. Arafat, avvitato su se stesso e sul proprio egoismo, diventa il prigioniero della Mukata di Ramallah, da cui non può muoversi, neppure per vedere il sole. E’ sempre più fragile, tremebondo, pallido, spossato. Fino a quando, alla fine di ottobre, viene deciso di trasferirlo a Parigi, in una clinica, dove l’11 novembre 2004 muore. La determinazione delle moglie Suha, che non ha mai creduto alla morte naturale, e l’aiuto della tv del Qatar Al Jazeera, hanno permesso l’avvio di un’inchiesta medico-scientifica delicatissima, che si è conclusa con un verdetto (riconosciuto scientificamente da prestigiose riviste internazionali) raggelante: il leader sarebbe stato avvelenato con il polonio. Tracce del veleno sarebbero state trovate sullo spazzolino da denti del leader, sulla biancheria e su altri reperti. Tutto vero? Forse sì, ma il mistero rimane. Chi voleva uccidere Arafat? Gli israeliani, oppure i suoi nemici interni che avevano la possibilità di avvicinarlo ogni giorno, nel bunker della Mukata?
Il leader palestinese se n’è andato, Abu Mazen è diventato presidente. Nel 2006, alle elezioni politiche che soprattutto gli americani avevano voluto nella convinzione che i laici del Fatah avrebbero vinto, vi è stato l’amaro risveglio, con il trionfo di Hamas. Il resto è storia recentissima, il processo di pace è ibernato, e nulla si muove. Certo, a pensarci bene, l’Arafat dei tempi migliori in questi ultimi dieci anni qualcosa avrebbe fatto: per contenere Hamas, sicuramente per evitare che gli assassini dello Stato islamico si infiltrassero in Palestina. E forse si sarebbe inventato la soluzione impossibile per realizzare il sogno dei due Stati, che vivano sulla stessa Terra da buoni vicini, in pace e in sicurezza. L’indomito combattente, scomparso 10 anni fa, aveva ben chiare le coordinate del conflitto che pare irrisolvibile. Non certo dovute al pretesto di odi religiosi, ma agli egoismi di un gigantesco problema condominiale, e quindi all’imperativa necessità di imporre un compromesso territoriale: agli uni e agli altri.
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