L'intifada diplomatica e i volonterosi candidati allo stupro
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
a destra Alon Liel
Cari amici,
come titolava ieri il Manifesto, è iniziata l'Intifada. Non quella di piazza, che nonostante il continuo incitamento dell'Autorità Palestinese non riesce a decollare davvero e per ora consiste semplicemente nell'intensificazione del terrorismo a bassa intensità condotto a Gerusalemme e nei territori amministrati dalla Stessa Autorità Palestinese da qualche decina, al massimo qualche centinaio di persone, spesso ragazzi minorenni, che appartengono ai partiti della guerriglia (Fatah, Hamas, Jihad Islamica).
No, non è “l'intifada religiosa” (altro titolo di giornale) oppure quella di Gerusalemme (abbiamo già dato, si chiamò così l'ondata terrorista di una dozzina d'anni fa, che costò migliaia di vittime e alla fine fu stroncata dalla reazione israeliana), e neppure l'”intifada silenziosa”, dato che si tratta di tutto il contrario, non una sollevazione popolare, ma l'azione di gruppi decisi a fare più rumore possibile.
No, l'intifada in questione è “diplomatica”.
Che è naturalmente un ossimoro, perché “intifada” vuol dire sollevazione, ondata di violenza, conflitto aperto; mentre il compito naturale della diplomazia consiste esattamente nello smorzare i conflitti ed evitare la violenza, almeno fino a che è possibile - poi i diplomatici tornano a casa e la parola passa ai generali.
Ma anche se è concettualmente spuria, l'”intifada diplomatica” è una furbata pazzesca, perché essendo diplomatica non la devono compiere i sudditi dell'Autorità Palestinese, di cui tutti i sondaggi mostrano che sì, in grande maggioranza avrebbero piacere se ci fosse una sollevazione contro Israele, ma non hanno affatto voglia di farla loro, perché hanno cose più urgenti da fare nei loro campi, uffici, negozi e non hanno voglia di farsi male - a parte i professionisti, naturalmente, che sono pagati per il terrorismo grande e piccolo; e i ragazzi, cui a scuola non spiegano il teorema di Pitagora o la genetica, ma quanto è bello e buono diventare martiri, cioè morire cercando di ammazzare gli ebrei.
No, i “palestinesi” in questa intifada non devono affatto impegnarsi - il che ha il vantaggio per la dirigenza palestinese così allergica alle elezioni da esservisi sottoposta per la prima e ultima volta una decina d'anni fa, prorogandosi poi da sola “per ragioni di emergenza”. Si elimina anche quella rozza ma certamente efficace misura del consenso sulle spinte rivoluzionarie che consiste nel vedere se c'è davvero della gente disposta ad andare in piazza e a rischiare la vita per quel che dicono loro.
Saeb Erekat
No, il contadino di Betlemme e l'impiegato di Ramallah non devono fare proprio niente, non votano e non manifestano, al massimo fanno il tifo da fuori campo. E non deve fare nulla neppure la diplomazia palestinese, se vogliamo chiamare così quel manipolo di pittoreschi personaggi guidati da quello iettatore di Erakat, campione mondiale del lancio delle bugie dal microfono (pensate che ha dichiarato di essere filisteo, gebuseo, nabateo, cioè di appartenere a tutti gli “ei”che sono passati da quelle parti, tutti rigorosamente non arabi, i filistei anche di lingua e costumi indoeuropei, giacché la sua famiglia abita a Gerico da 5000 anni - peccato che tutti in quella zona sappiano benissimo che il suo clan viene dall'Arabia centrale ed è arrivato in “Palestina” alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la crescita economica provocata dal ritorno degli ebrei dall'Europa.
Abu Mazen e John Kerry
Comunque no, non devono fare niente, a parte lamentarsi un po', tutto il lavoro lo fanno le diplomazie europee e occidentali. Funziona così: Abbas per una ragione qualunque ordina una “giornata della rabbia”, il che significa che dice ai suoi teppisti di divertirsi un po' con le molotov e le pietre sugli automobilisti, meglio se ci scappa una coltellata; La polizia israeliana presidia in forze la zona dei disordini, chiude provvisoriamente i possibili punti di concentramento dei teppisti, come il monte del Tempio. Allora Abbas telefona a Kerry e gli chiede di intervenire contro la repressione israeliana e il segretario di stato puntualmente esegue, seguito dai ministeri degli esteri europei.
Oppure: nel lungo e cauto percorso burocratico che porta allo sviluppo edilizio delle città e dei villaggi israeliani, in particolare quelli oltre la linea verde, accade spesso che un qualche progetto superi un certo stadio, ottenga l'autorizzazione alla progettazione dettagliata, o si decida che è conforme al piano urbanistico o che c'è il finanziamento per renderlo esecutivo o anche che si apra finalmente il cantiere. Si tratta di solito di qualche centinaio di appartamenti, cioè di qualche decina di palazzi in tutto. Accade che qualche ministro ne parla e vanta la realizzazione burocratica, o più spesso che qualcuno che lavora per il re di Prussia segnali la cosa ai media o direttamente ai palestinisti.
E allora Abbas, Erekat o chi per loro alza il telefono e chiama Kerry, o la Ashton o qualche ministro europeo. Il seguito è sempre lo stesso: scandalo, convocazione di ambasciatori o di consigli di sicurezza dell'Onu, che mai si riuniscono per condannare il terrorismo, i razzi e gli omicidi.
E poi una grandinata di comunicati a fotocopia: “Ci interroghiamo se Israele è davvero impegnato nel processo di pace”, “gli insediamenti sono illegali” eccetera eccetera. Il fatto è che gli insediamenti non sono affatto illegali, nè lo sono le costruzioni in esso. Per sostenerlo, si cita a sproposito, senza conoscerlo l'articolo 49 della IV convenzione di Ginevra, che proibisce alle potenze occupanti la deportazione delle proprie popolazioni nei territori occupati, come progettava di fare per esempio il nazismo per spostare gli altoatesini in Ucraina.
Ma intanto Israele non è affatto una potenza occupante, perché Giudea e Samaria non appartengono legalmente a nessun altro stato (non all'Impero Ottomano, che non c'è più, non alla Gran Bretagna, che non ha più il Mandato, non alla Giordania, che l'aveva occupato illegalmente, non all'inesistente stato di Palestina) e ai termini dei deliberati della Società delle Nazioni recepiti dall'Onu, sono destinati agli insediamenti ebraici, salvo il fatto che Israele ha accettato con i trattati di Oslo di delimitarvi dei territori di “autonomia” palestinese, non uno stato.
Federica Mogherini
Ma non importa. C'è sempre qualche diplomazia europea, per esempio l'ex ministro degli esteri italiano Mogherini, ora emigrata a Bruxelles, che ignora i fatti e parla di illegalità - facendo così il lavoro dell'intifada diplomatica per conto di Abbas e della sua cupola. Poi ci sono i governi e i parlamenti che riconoscono lo “stato di Palestina” anche se non se ne sanno i confini, la popolazione e non controlla il territorio che pretende suo, in parte controllato da Hamas, in parte amministrato da Israele. Così il parlamento inglese e il governo svedese si sentono più nobili e buoni, ma in realtà stanno solo facendo intifada e rendono più difficile una trattativa, perché incoraggiano Abbas a irrigidirsi, dandogli l'illusione che qualcuno possa fare il lavoro per lui.
Ma qui le diplomazie occidentali non sono sole. Vi sono degli israeliani e degli ebrei della diaspora che collaborano attivamente a questo lavoro contro la pace e contro Israele. Le cronache riportano che bel 496 israeliani (su 6 milioni di ebrei, non è male) hanno firmato un appello al parlamento spagnolo, che è il prossimo teatro dell'intifada diplomatica, perché dia anch'esso la sua benedizione al fantastato di Abbas (http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/469-Israelis-petition-Spain-to-recognize-a-Palestine-state-380110 ). Inutile dire che i soliti noti li appoggiano da fuori: i Chomski, i Pappé, le Butler e i loro squallidi imitatori italiani che non nomino per non dar loro soddisfazione.
E' interessante però notare che i 496 israeliani nemici di Israele hanno un capo o un coordinatore notevole. Si chiama Alon Liel, è stato direttore generale del ministero degli esteri israeliano. Capite quanto sia annidata nella burocrazia dello stato israeliano la vecchia nomenklatura “postsionista” e quanto poco essa si ritenga legata ai criteri di normale lealtà alla politica dello Stato, come il tradimento, l'alleanza oggettiva con i terroristi non faccia loro paura.
E' vero che Israele è una grande democrazia, che non nega a costoro il diritto di associarsi e di concorrere al parlamento. Meretz, che più o meno esprime queste posizioni di estrema sinistra complice di Abbas, ha avito alle ultime elezioni 6 seggi su 120, il cinque per cento, che corrisponde anche alla diffusione di “Haaretz”, il giornale palestinese in lingua ebraica che è il loro organo di stampa. Ma a questi signori essere in estrema minoranza non importa nulla, perché cercano comunque di imporre le loro scelte con l'appoggia dell'intifada diplomatica.
Come disse in un incontro con l'ambasciatore americano il direttore di Haaretz, la sola soluzione per la pace è che gli Stati Uniti stuprino (sì disse proprio così, stuprino, to rape) Israele. E naturalmente questa banda di volonterosi candidati allo stupro è l'anima dell'intifada diplomatica. Per il divertimento degli islamisti “palestinesi” o meno, che di stupri certamente se ne intendono.
Ugo Volli