Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/10/2014, a pag. 31, con il titolo "Il jihadismo oltre lo Stato Islamico", l'analisi di Renzo Guolo.
"Fermo! Hamas non è l'Isis... Basta esecuzioni pubbliche... facciamolo in privato!"
Renzo Guolo, nell'elencare le diverse forme storiche assunte dal jihad, ne dimentica una. Provate a indovinare un po', non è difficile... è ovviamente quella che ha a che fare più direttamente con Israele, ovvero il terrorismo palestinese.
La condanna del terrorismo islamista è doveroso, ma deve comprendere anche quelle forme che seminano la morte nello Stato ebraico, per esempio Hamas e Hezbollah. E invece, quando i terroristi anziché seminare la morte in altre parti del mondo lo fanno in Israele - come è successo pochi giorni fa a Gerusalemme -, d'incanto cade il silenzio, quando non vengono trasformati in "resistenti" in lotta per la libertà contro la " cattiva entità sionista".
Ecco l'analisi di Guolo:
Renzo Guolo
Trovate le differenze
Prima o poi lo Stato Islamico sarà sconfitto, nonostante i divergenti interessi e calcoli dei membri della coalizione che lo combattono. Anche se a un prezzo che l’Occidente stenta ancora a immaginare. In ogni caso l’esito del conflitto non cancellerà il fenomeno del jihadismo. Potrà solo ridimensionarlo se non verrà vinta la battaglia, più difficile, per la “conquista del cuore e delle menti” dei musulmani.
Il lungo ciclo politico dell’Islam radicale, ormai più che trentennale, non è ancora concluso. E una sconfitta militare non implica necessariamente una sconfitta politica. Il jihad in Siria e in Iraq è il quinto episodio della lunga saga combattente panislamista. Iniziata con la mobilitazione antisovietica in Afghanistan, proseguita durante le guerre balcaniche in Bosnia e con il ritorno di nuovi e vecchi mujaheddin nell’Emirato del Mullah Omar per fondare Al Qaeda, divampata durante la sanguinaria epopea zarkawiana in Iraq, letteramente esplosa negli ultimi anni tra le sabbie di Raqqa e Mosul. Nel mezzo, i diversi jihad nazionali, combattuti anche dai reduci di queste campagne, in Algeria, Egitto, Yemen.
Se si escludono la prima campagna afghana e quella bosniaca, assai diverse per esito e contesto e nelle quali i radicali avevano lo stesso Nemico dell’Occidente, gli altri tre episodi, e i vari jihad nazionali, si sono conclusi, o stanno per concludersi, con l’insuccesso militare dei mujaheddin. Percepito, però, come tale solo dai loro nemici. Complice una diversa concezione del tempo, circolare più che lineare, i mujaheddin interpretano le sconfitte non tanto come scacchi strategici ma come battaglie perdute in una guerra alla fine, comunque, vittoriosa. Una concezione del mondo che, unita al persistere delle ragioni politiche alla base dei diversi conflitti, ha prodotto, nel corso del tempo, una crescente offerta di combattenti. Dopo ogni scacco armato lo jihadismo ha ripreso forza. Con più vigore di prima.
L’anelasticità dell’Islam radicale alla sconfitta militare rinvia alla sua totalizzante essenza ideologica. Esso dispone di un repertorio simbolico in grado di spiegare, e soprattutto, giustificare le battute d’arresto più pesanti. Tutto viene letto secondo lo schema, usurato, della falsa coscienza dei musulmani e del complotto del Nemico. Nonostante questo deficit analitico, l’ideologia radicale si è legittimata e diffusa, diventando senso comune per centinaia di migliaia di individui. La catena di trasmissione tra le diverse generazioni che lo hanno attraversato non si è mai interrotta, come accaduto in altri movimenti rivoluzionari. E l’islam radicale è un movimento rivoluzionario, sia pure sotto la forma di tragica e sanguinaria rivoluzione conservatrice. La sua forza attrattiva tra i giovani non è spiegabile senza questa presa d’atto.
La generazione dei primi “afghani” è fatta di cinquantenni e sessantenni, i combattenti in Iraq e Siria sono, in buona parte, poco più che ventenni. L’appartenenza alla comunità del fronte muta il concetto di generazione come unità temporale storicamente definita. I suoi membri, che pure hanno imbracciato le armi in tempi assai diversi come gli anni Ottanta o il secondo decennio del nuovo secolo, sentono di condividere la medesima esperienza: l’età del jihad. I legami generazionali così si dilatano. Dando origine a un “ filo verde” in cui tutto si tiene.
La natura ideologica del movimento fa si che esso non possa essere contenuto solo attraverso strumenti militari: per essere sconfitto deve essere contrastato culturalmente. Un simile passaggio implica non solo il rifiuto, decisivo, della deriva estremista da parte del mondo islamico ma anche una politica occidentale consapevole delle conseguenze di scelte destinate a fare da volano al malessere dell’Islam. L’antidoto funziona se nel corpo sociale della Mezzaluna diminuisce la febbre che i radicali attribuiscono alla westoxification, l’intossicazione da Occidente. Il fenomeno del radicalismo è, infatti, anche una reazione identitaria alla globalizzazione. Come mostra la presenza in Mesopotamia di migliaia di combattenti cresciuti in Europa o negli Stati Uniti, in Canada o in Australia, pervasi da un odio profondo contro l’Occidente. È questo Islam del risentimento che va ridotto a marginale devianza patologica. Altrimenti il problema è destinato ciclicamente a riproporsi. Pronto a riemergere da una delle tante fratture che minano gli instabili equilibri di un mondo dilaniato dal rapporto con la modernità occidentale, con la propria identità irrisolta, con confini non più accettati.
Per inviare la propria opinione a Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante