La scena interiore
Marcel Cohen
Traduzione di Michele Zafferano
Ponte alle Grazie euro 13,40
Marcel Cohen aveva cinque anni quando, nel 1943, i suoi genitori, la sorellina, gli zii e i nonni vennero deportati ad Auschwitz. Nessuno fece ritorno. Lo scrittore e giornalista parigino ha aspettato decenni per rimettere insieme i rari ricordi e le testimonianze dei pochi sopravvissuti. È partito da piccoli oggetti familiari: un cane giallo di stoffa, un portauovo, un posacenere, oggetti minuti, seppelliti dal tempo. Cohen usa due registri, i ricordi di bambino e i fatti come gli sono stati raccontati. Ogni capitolo è dedicato a un familiare, Marie, la madre, il padre Jacques. Alla sorellina Monique appena due pagine, di lei non è rimasta nemmeno una foto. Aveva sette mesi quando è stata deportata. Un libro intimo, pieno di pudore. Una dolorosa e frammentaria lotta contro l’oblio. Perché ha aspettato settant’anni per scrivere il libro? «In realtà questo libro è il lavoro di tutta la mia vita, l’ho costruito poco a poco, con i ricordi della mia infanzia che ho voluto fossero stampati in corsivo per non mescolare ciò che l’adulto ha potuto sapere e ciò che il bambino ricorda. Non sarebbe stato onesto letterariamente, sarebbe diventata una finzione. Volevo che il libro non avesse nulla di letterario in modo che il lettore potesse trovare il suo posto fra le pagine e che si sentisse un po’ perduto come lo ero io mentre scrivevo. Per questo c’è molto silenzio, molto bianco nelle pagine che non ho riempito tutte le volte che non conoscevo la storia». Fino a che punto ci si può fidare della memoria di un bambino? «Non ci si può fidare affatto. Tutti gli psicologi e gli psicanalisti affermano che il bambino nel momento in cui racconta fa della letteratura, quindi l’adulto non deve aggiungere altro». Lo psichiatra neurologo Boris Cyrulnik, che ha vissuto una esperienza molto analoga alla sua, sostiene che accanto alla verità esiste anche una falsa memoria di cui diffidare. «Non mi sono reso conto della falsa memoria, ho restituito i miei ricordi e la storia così come mi veniva racconta in famiglia, senza cercare la verità. Altrimenti avrei fatto letteratura». Oltre agli oggetti lei è stato aiutato anche dagli odori. «L’odore è qualcosa di animale, che risale all’epoca in cui l’uomo aveva bisogno di fidarsi del suo olfatto. Ho ritrovato il profumo dello zio Joseph, non quello di mia madre, anche se sono certo di non averlo dimenticato, lo riconoscerei tra duecento donne con profumi differenti». Lei chiama i suoi genitori per nome, Marie, Jacques. Perché? «Volevo che fossero presenti come esseri umani più che come miei genitori. Il progetto dei nazisti era di cancellare la memoria. Lo sa che per leggere i sei milioni di nomi della Shoah ci vorrebbero due anni di lettura notte e giorno senza interruzione? Dei sei milioni di vittime non sappiamo quasi nulla per questo era importante che non fossero mia madre e mio padre ma delle vittime come altre centinaia di migliaia. Questa storia non è soltanto mia.
Brunella Schisa - Il Venerdì di Repubblica