Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/10/2014, a pag. 35, con il titolo "Per lo Stato di Israele la vera minaccia è l'Iran", la risposta di Sergio Romano alla lettera di Gian Domenico Bardanzellu.
La minaccia dell'Iran, e in particolare di un Iran dotato di armi nucleari, è il pericolo numero uno non solo per Israele, ma anche per l'Occidente e per gli equilibri già molto precari del Medio Oriente.
Sergio Romano prende atto di questo, anche se non può fare a meno di rivelare le proprie simpatie per il regime degli ayatollah, quando riconosce che "questo è un altro segno della distanza che separa ormai la politica israeliana da quella di molti Paesi occidentali.Quell' ormai è rivelatore del suo apprezzamento per il Parlamento inglese, che ha recentemente "riconosciuto" lo stato di Palestina, girando le spalle a Israele, l'unico Stato democratico del Medio Oriente, e al processo di pace.
Ecco la lettera al Corriere e la risposta di Sergio Romano:
Sergio Romano Ytzhak Shamir Benjamin Netanyahu
Siamo sempre più vicini a dover fare i conti con un Iran dotato di armi nucleari
Perché Israele, alleato per eccellenza degli Usa, non fa parte della coalizione voluta da Obama contro l'Isis? Perché Israele non interviene comunque con i propri aerei (molto efficaci su Gaza) in appoggio alle azioni della coalizione? Perché Israele non concede l'uso delle proprie basi militari alla Usaf, molto più vicine al fronte, anziché costringere gli aerei degli Alleati Usa a rifornirsi in volo per raggiungere il fronte?
Gian Domenico Bardanzellu
Zurigo
Caro Bardanzellu,
Risponderò ricordando ciò che accadde fra il 1990 e il 1991 quando il primo presidente Bush organizzò una grande coalizione, composta in buona parte da Stati musulmani, per l'invasione dell'Iraq e la liberazione del Kuwait, occupato da Saddam Hussein pochi mesi prima. Saddam cercò di coinvolgere Israele nel conflitto lanciando 39 Scud (missili balistici di fabbricazione russa) soprattutto contro Haifa e Tel Aviv. II governo israeliano, presieduto allora da Yitzhak Shamir, era pronto a reagire con le armi, ma ne fu dissuaso dalle forti pressioni della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Bush sapeva che l'intervento di Israele avrebbe creato grande imbarazzo negli alleati musulmani degli Stati Uniti. Potevano combattere contro uno Stato arabo che aveva invaso un Paese fratello, ma non potevano combatterlo a fianco di Israele senza suscitare le critiche e l'indignazione dell'opinione pubblica musulmana. II problema si porrebbe oggi negli stessi termini se Israele partecipasse alla grande coalizione di Barack Obama contro l'Isis. Esiste tuttavia, rispetto al 1991, una fondamentale differenza. Mentre il governo di Shamir era pronto a combattere contro Saddam Hussein, quello di Benjamin Netanyahu non ha alcuna intenzione di combattere contro l'Isis in una guerra fra sunniti e sciiti che sta valorizzando il ruolo dell'Iran nella regione. In una ottica strettamente israeliana, la sconfitta dello Stato islamico sarebbe una vittoria dell'Iran e dei suoi alleati sciiti, dalla Siria al Golfo Persico. E' questa la ragione per cui Netanyahu non smette di sostenere che «il vero problema non è l'Isis, ma l'Iran». In un recente articolo sulla edizione internazionale del New York Times, Yuval Steinitz, ministro israeliano dell'Intelligence, sostiene che il negoziato in corso con Teheran rischia di non essere sufficientemente restrittivo e di consentire che l'Iran continui ad arricchire uranio. Secondo Steinitz, il fallimento dei negoziati non sarebbe uno scacco. Permetterebbe di conservare il regime delle sanzioni e, addirittura, di adottarne altre. L'articolo è una critica alla politica di Obama e un implicito appello a quella parte della società politica americana che gli è nemica. Dopo la mozione della Camera dei Comuni per il riconoscimento britannico dello Stato palestinese, questo è un altro segno della distanza che separa ormai la politica israeliana da quella di molti Paesi occidentali.
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