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Corriere della Sera-La Stampa Rassegna Stampa
26.10.2014 Reyhaneh Jabbari impiccata, commento di Pieluigi Battista, Francesca Paci
IC dedfica questa pagina a Emma Bonino e all'esperto Roberto Toscano

Testata:Corriere della Sera-La Stampa
Autore: Pierluigi Battista-Francesca Paci
Titolo: «Quei diritti umani calpestati che ignoriamo (per pavidità)- Il presidente riformista Rohani maglia nera per i diritti umani»


Reyhaneh Jabbari

Sull'impiccagione di Reyhaneh Jabbari ripremdiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/10/2014, a pag.13, di Pierluigi Battista. Dalla STAMPA l'analisi di Francesca Paci.
Quasi tutti i giornali dedicano oggi spazio -molti la prima pagina- alla sua esecuzione da parte della 'giustizia' iraniana. Tutto il mondo civile ha giudicato questo crimine in modo unanime, condannandolo. In Iran non esiste la legittima difesa, men che mai se a esercitarla è una donna. Un Paese barbaro, retto da una casta di criminali, abili a presentarsi agli allocchi occidentali in abiti 'moderati'.

Emma Bonino
Sul MESSAGGERO di oggi, un'altra intervista a Emma Bonino, dopo quella identica alla STAMPA, che spudoratamente accomuna Iran e Usa, anche lì c'è la pena di morte, dice, dopo aver riaffermato che è indispensabile aprire il dialogo con l'Iran. Un cinismo del quale dovrebbe vergognarsi.

Ecco i due articoli:

Corriere della Sera-Pierluigi Battista: " Quei diritti umani calpestati che ignoriamo (per pavidità) "


Pierluigi Battista

A Teheran Reyhaneh Jabbari è stata impiccata al termine di un processo-farsa, colpevole di aver colpito a morte l’uomo che la stava stuprando. Ci saranno proteste blande, comunicati misurati, prudenti prese di posizione. O forse niente. Con l’Iran, nel turbolento scacchiere medio orientale, bisognerà pur tenere la porta aperta.
I corpi degli impiccati che penzolano sulle piazze di Teheran vanno cancellati, lo impone la sapienza diplomatica. I diritti umani sprofondano nell’oblio. Il realismo politico trionfa. Nessuno verrà in soccorso delle vittime di regimi sanguinari e oppressivi.
La fine rovinosa delle «primavere» arabe ha sradicato la difesa dei diritti umani fondamentali dall’agenda politica dei governi. L’opinione pubblica internazionale è stanca e impaurita. Dimentica i 230 mila morti in Siria, e anzi non dissimula nemmeno un certo compiacimento per i massacri compiuti da Assad: mica vogliamo darla vinta agli sgozzatori che praticano la decapitazione rituale degli infedeli? Certo che no. E infatti nessuno obietta se nell’Egitto dei militari, golpisti ma pur sempre laici, le prigioni della tortura son tornate a riempirsi con una frenesia persino sconosciuta ai tempi del dittatore Mubarak, e fioccano le condanne a morte per i membri dei Fratelli musulmani: mica vogliamo rafforzare gli assassini del fondamentalismo fanatico? Certo che no. Poi però dobbiamo accettare che uno strato spesso di ovatta ottunda la percezione di quello che sta accadendo in Pakistan, vulcano che può esplodere in ogni momento, dove una ragazza cristiana, Asia Bibi, viene condannata a morte con l’accusa grottesca di «blasfemia». In Iran hanno anche scatenato la guerra santa contro le donne che avevano osato assistere a una partita di volley e sono state arrestate. Facciamo finta di non vedere l’assurdità. Tra un po’ diremo che bisogna rispettare i costumi dei popoli, per metterci in pace con la coscienza. In passato qualcuno si era permesso di stupirsi perché all’Onu la commissione dedicata ai diritti umani risultava presieduta da un esponente del regime poliziesco di Gheddafi. Ce ne siamo pentiti: quel tiranno buffone teneva buone le teste calde, con i metodi che conosciamo. E ora abbiamo smesso di protestare. E anche di cogliere i risvolti grotteschi del realismo politico.
L’Arabia Saudita fa parte della coalizione contro l’Isis: davvero dovremmo indignarci perché il possesso di un crocefisso o di un rosario, nascosti in casa, è sufficiente per la condanna a morte di un «blasfemo» cristiano? Il realismo politico impone il silenzio, l’accondiscendenza, persino l’appoggio ai regimi che violano senza pudore i diritti umani più elementari.
Non dobbiamo scandalizzarci se gli scherani di Hamas ammazzano un po’ di palestinesi con esecuzioni sommarie ed esponendo per strada i corpi martoriati dei «collaborazionisti»: il realismo politico ci consiglia di non esagerare con le parole di condanna, che invece possono essere spese senza ritegno contro Israele, senza nessuna conseguenza spiacevole per noi. Ma anche se usciamo geograficamente dal mondo incandescente del fondamentalismo religioso, la consegna del silenzio sui diritti umani appare tassativa e intransigente. Il Tibet martoriato, il Dalai Lama che non bisogna nemmeno accogliere nelle visite ufficiali, i dissidenti in galera, la censura, le condanne a morte degli oppositori. Temi molesti, inopportuni, che rischiano di compromettere i buoni affari con un gigante che è meglio non fare arrabbiare. Su Putin, poi, il silenzio è diventato un dogma.
Lui sì che conosce il modello per trattare con i fanatici pericolosi: lo ha sperimentato in Cecenia, radendo al suolo Grozny. Oggi Putin deve essere blandito, ci sono ragguardevoli contratti da onorare, figurarsi se è il caso di chiedere all’autocrate come vengono trattati i dissidenti, i gay, gli oppositori, i giornalisti che spariscono e non si adeguano alla stampa di regime. Magari ci dispiace anche, ma non ci conviene manifestare il nostro civile disappunto perché al peggio non c’è mai fine e male abbiamo fatto ad affidarci ai ragazzi della «primavera» e forse ci siamo ficcati nei guai andando a impedire ai talebani di Kabul le lapidazioni delle donne negli stadi.
È la legge del realismo. Reyhaneh Jabbari riposi in pace.

La Stampa-Francesca Paci: " Il presidente riformista Rohani maglia nera per i diritti umani "

 
Francesca Paci

Il rohanometro sta andando in tilt. Poco più di un anno fa quando l’Institute for Global Studies dell’università di Toronto lanciò il misuratore online delle 46 promesse del neopresidente iraniano Rohani molti vagheggiarono il bis della stagione riformista di Khatami. Invece, al di là del vago annuncio di un’imminente Carta dei diritti e dei tweet contro la censura del web, il successore di Ahmadinejad pare distante dalle aspettative generate. L’incandescente vulcano mediorientale ha spinto Teheran sulla ribalta geopolitica internazionale ma la vita e la morte dei suoi figli restano dettagli insignificanti accantonati dietro le quinte. Secondo il Centro di documentazione diritti umani dell’Iran quella diReyhaneh Jabbari è la 382esima esecuzione dal votoche l’estate scorsa ha portato al potere Rohani (almeno 500 nel 2013, Amnesty ne conta 353). Peggio ha fatto solo la Cina, aggiunge Amnesty International precisando che data la segretezza dimoltecondanne(lapenacapitale è prevista per omicidio, adulterio, stupro,droga,blasfemia, sodomia, corruzione e altri reati) la cifrapotrebbe esseremaggiore. Di certo ci sono i volti e le storie che Internet ci aiuta a conoscere ma altrettanto facilmente a dimenticare. C’è Reyhaneh, che l’indignazione globale non è riuscita a salvare, ma c’è anche Ghoncheh Ghavami, la 25enne giurista anglo-iraniana rinchiusa da giugno nella temibile prigione di Evin perché voleva assistere a una partita di pallavolo maschile (è in sciopero della fame). Ci sono i sei ragazzi condannati un paio di settimane fa a 6 mesi di carcere e 91 frustate per un video su YouTube in cui ballavano sui tetti di Teheran al ritmo dell’hit di Pharrel Williams «Happy». C’è il fisico 32enne Omid Kokabee, impiegato all’università delTexas e arrestato nel 2011 durante le vacanze in Iran con l’accusa di «collaborare con un governo ostile» (è tuttora in cella). C’è il corrispondente del «Washington Post» Jason Rezaian in carcere dal 22 luglio senza che Teheran ne abbia rivelato il motivo. C’è il 28enne attivista e filosofo Arash Sadeghi che dal 2009 entra e esce da Evian (è dentro dal 6 settembre). C’è Saeed Shirzad, rinchiuso a Evin da 4mesi per aver collaborato conildelegatoOnuper i diritti umani in Iran.Ec’è l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh, vincitrice del Sakarov 2012, detenuta dal 2010 al 2013 e graziata al prezzo dell’interdizione dal lavoro per 3 anni. Ci sono poi quelli che non ci sono più. Il 34enne poeta e insegnante arabo-iraniano Hashem Shaabani Nejad, giustiziato a febbraio dopo essere stato condannato nel 2012 per rime considerate «guerra contro Dio». Il 37 psicoterapeuta Moshen Amir-Aslani impiccato settimane fa per eresia dopo 9 anni di prigione. La lista è senza fine se gli osservatori internazionali (da Amnesty all’Onu a Hrw a Iran Human Rights a Nessuno Tocchi Caino) concordano nell’assegnare a Rohani un record peggiore di qualsiasi aspettativa: almeno 300 esecuzioni nel 2014 (147 da gennaio a giugno secondo le fonti ufficiali); 900 prigionieri politici tra cui i leaders della protesta del 2009 Mosavi e Keroubi, 32 giornalisti e 179 membri della minoranza religiosa baha’i; la doccia fredda somministrata agli internauti con gli 8 utenti di Facebook condannati a maggio a pene tra 7 e 20 anni di carcere. «Rohani non ha il completo controllo sulla censura in Rete» nota l’esperto di cybersicurezza Collin Anderson. E sul resto? ci si chiede, se laNobel ShirinEbadi rileva che «quasi tutti gli attivisti dell’opposizione arrestati prima dell’elezione diRohani sono ancora in cella». Il presidente parla al mondo con charme ma tra le righe ha sempre escluso riforme repentine. Quanto è possibile aspettare in nome dell’aiuto iraniano in Siria e Iraq? Per Reyhaneh emolti altri il tempo è già scaduto.

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