Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 26/10/2014, a pag.32, con il titolo " Varsavia, il ghetto in un museo ", il commento di Wlodek Goldkorn.
Wlodek Goldkorn La facciata del museo
Il più importante e costoso progetto culturale della Polonia del dopo comunismo non è un memoriale della resistenza al regime né un luogo in cui ricordare l'identità cattolica della nazione, ma un museo in cui si vuole celebrare ed esaltare la vita degli ebrei del Paese. Strano a dirsi, visto che per decenni il binomio Polonia-ebrei significava, nell'immaginario dell'Occidente, i campi di sterminio nazisti, la Shoah, e una dolorosa storia dell'esclusione, dell'antisemitismo, dei pogrom. Ma ora tutto cambia ed ecco che nel centro di Varsavia è sorto un edificio in pietra chiara, coperta in larga parte da vetro e con ampie finestre, con dentro una mostra permanente. Lo scopo: dimostrare quanto gli oltre mille anni di esistenza (con alcuni intervalli ) dello Stato polacco siano legati alle sorti degli ebrei. In altre parole: niente Polonia senza i suoi ebrei e niente ebraismo, compreso quello americano e Israele, senza le sue radici polacche. E anche, come dice il direttore del museo Dariusz Stola, dimostrare quanto il mito di un Paese con una sola etnia e una sola fede, quella cattolica, sia stato un falso storico e una strada pericolosa: da abbandonare e in fretta L' edificio, progettato dal finlandese Rainer Mahlamäki, è stato ultimato due anni fa La mostra permanente sarà inaugurata tra due giorni, il 28 ottobre, alla presenza dei presidenti di Polonia e d'Israele. II palazzo ha forme regolari e riprende le sembianze geometriche della piazza in cui sorge, intitolata agli eroi del ghetto di Varsavia. La piazza, a sua volta, è uno spazio particolare, denso di storia e emozioni. Si sente la presenza dei fantasmi. Si trova nel quartieredi Muranow, prima della guerra abitato da trecentomila ebrei, un terzo della popolazione della capitale: artigiani e operai, scrittori e artisti, bottegai e disoccupati. Durante la guerra qui si trovava il ghetto, appunto, distrutto dopo l'insurrezione del 1943: duecentoventi ragazzi e ragazze che per tre settimane hanno combattuto le armate di Hitler. Sulle macerie, mai sgomberate, vennero costruire nuove strade e palazzi. La piazza centrale è rimasta vuota: tranne il monumento agli insorti e a tutti i morti, inaugurato nel 1948 e costruito dalla pietra che doveva servire per erigere un memoriale a Hitler. Ora, quel vuoto lo riempie il nuovo edificio. Entrato da un portone di vetro, il visitatore si trova in un ampio spazio con pareti a forma di onde. In mezzo, una specie di canyon, sopra cui si vede una stretta passerella, come un passaggio sul vuoto della morte ( la Shoah ), o forse un'allusione alla leggenda dell'attraversamento del Mar Rosso. Mahan Turski è un signore ottantottenne. Ex prigioniero di Auschwitz, si è adoperato moltissimo perché questo museo sorgesse. Racconta come il progetto fosse nato nei primi anni Novanta.Occorreva trovare i fondi per questa gigantesca impresa che mette in ombra il pur bello e importante museo ebraico di Berlino di Daniel Libeskind.
Si dice soddisfatto perché lo Stato polacco e la cittàdi Varsavia hanno contribuito con oltre ventidue milioni di euro, mentre i donatori privati, soprattutto ebrei americani, hanno sborsato quarantacinque milioni di euro.
Dice Turski: «A differenza di Mosè, cui Dio ha impedito di entrare nella Terra promessa, io il mio sogno lo vedo realizzato». E tuttavia, guardando la mostra, curata da studiosi di tutto il mondo sotto la guida della canadese Barbara Kirshenblatt-Gimblett («da sette anni vivo in Polonia e sono felice»), e dove un grande contributo è stato dato da Jerzy Halbersztadt, il primo responsabile del progetto, si ha l'impressione che la Polonia non fosse una specie di Egitto per gli ebrei. Niente schiavitù né cattività, ma appunto una vita e un futuro: interrotto dal cataclisma della Shoah, ma non abbandonato. Come commenta il direttore Stola, «la Shoah non era l'inevitabile conclusione della storia.. Le gallerie che illustrano, anzi riproducono, l'esistenza degli ebrei polacchi sono otto. Si comincia con un mito. Si entra in un bosco e si sente il cinguettio degli uccelli. È il luogo in cui arrivano gli ebrei e trovano pace e armonia. Dicono: «Po lin», in ebraico «qui riposerò». E Polin è il nome in ebraico della Polonia e del museo. La galleria dedicata al Medioevo dimostra quanto la sovranità statuale dei primi principi fosse legata agli ebrei: sulle prime monete d'argento polacche il nome del regnante è scritto in caratteri ebraici. II Paese è considerato Paradisus Judeaorum, il paradiso degli ebrei. Nel Cinquecento sono garantiti loro non solo i diritti religiosi, gli ebrei si autogovernano con una Dieta formata da rappresentanti di tutto il Paese. Hanno anche una lingua, lo yiddish, e a Cracovia nasce una delle prime tipografie che in quell'idioma stampa libri. Il lento tramonto dello Stato, nel Settecento, significa diminuzione dei diritti. Si accenna a come l'immaginario ebraico sia legato al folklore. È stato ricostruito magnificamente il soffitto della sinagoga in legno di Gwozdz, settecentesca e bruciata dai tedeschi oltre settant'anni fa. I colori, i motivi floreali egli animali veri e mitici sonogli stessi usati dai vicini di casa cristiani. Prova di come sia falsa l'idea che gli ebrei non creassero immagini. La parte più bella e significativa riguarda l'impatto con la modernità. Imprenditori ebrei costruiscono fabbriche e ferrovie. Nascono partiti politici degli ebrei: dai sionisti ai socialisti del Bund che propagano la lingua yiddish e che si battono per una Polonia democratica. Vengono fondati sindacati ebraici, associazioni culturali, sportive e turistiche, c'è una rete di scuole e sanatori per bambini malati; c'è un'industria di cinema in yiddish, e case editrici e riviste letterarie all'avanguardia. La cultura popolare ( non solo ebraica ) della Polonia tra le due guerre è dominata da ebrei: da poeti, chansonnier e registi che abbandonano lo yiddish per usare il polacco e sentirsi polacchi. Peccato che a ricordar loro di non fare parte della Polonia, anzi di contaminare lo "spirito polacco cattolico", siano i partiti antisemiti, sempre più forti. E coraggiosa la parte dedicata alla Shoah. Le foto scattate dai tedeschi degli ebrei umiliati mentre i nazisti gli tagliano la barba, sono piccole e in basso. Occorre chinarsi, rendere onore alle vittime per vederle E ancora, esistono foto, scattate dai nazisti, delle esecuzioni nei boschi di Ponar: donne nude prima di morire. Quelle immagini in altri musei sono gigantografie: Shoah come pornografia e kitsch. Qui sono minuscole, nascoste tra i pali che simboleggiano gli alberi della foresta; s'intravedono appena, un gesto di rispetto e pietas. Non vengono nascosti i pogrom perpetuati dalla popolazione polacca ai danni dei superstiti, dopo la guerra, né il clamoroso caso di un villaggio, Jedwabne, dove nel '41 gli abitanti polacchi bruciarono vivi i vicini di casa ebrei. Oggi cosa rimane? Circa diecimila dei tre milioni di ebrei d'anteguerra. E poi il museo, per rileggere la storia, guardare il futuro e dare basi solide alla giovane democrazia. Riuscirà? Poco lontano dal museo c'è un edificio sulla cui facciata era dipinto un murale che celebrava Marek Edelman, eroe dell'insurrezione nel ghetto e della lotta per la democrazia ai tempi del comunismo. È stato distrutto mentre reintonacavano la facciata. Un'anziana signora si lamenta che sulla stessa facciata ci sia già un nuovo graffito. «Vandali», esclama. Quando sente che anche la distruzione del murale è stato un atto di vandalismo risponde: «Invece hanno fatto bene. Noi polacchi abbiamo i nostri eroi. Edelman se lo appendano li, nel ghetto».
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